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mercoledì 18 gennaio 2017

SITUAZIONE ECONOMICA E SOCIALE IN ITALIA






                         NOTE  SULLA  SITUAZIONE  ECONOMICA  E  SOCIALE  IN  ITALIA  E  PROPOSTE  PER  LA  CRESCITA  E  LO  SVILUPPO  
                                  Economia  ,  Finanze  ,  Lavoro , Criminalità 


                      CRESCITA  ECONOMICA  E  SOCIALE  ,     PAGARE  DI  MENO  PER  PAGARE  TUTTI “

 Per innescare una vera e propria , reale crescita economica  in Italia ,  è assolutamente necessario ricreare le condizioni favorevoli agli investimenti produttivi , di beni e servizi , alle possibilità e opportunità di lavoro e di occupazione;  cioè , provvedere a  ridurre il più possibile il peso  degli oneri fiscali che gravano sulle attività  imprenditoriali  , nella misura in cui tali oneri  vengono a costituire un peso  oggettivamente  non sostenibile  in funzione dello sviluppo e della produttività dell’impresa stessa , in relazione alle condizioni socio-economiche territoriali e ambientali nelle quali l’impresa medesima si trova  ad operare .
 Pertanto , qualsiasi impresa produttiva di beni e di servizi non potrà mai avviare e sviluppare la propria attività  se viene impedita da persecutori interventi criminali estorsivi , da  gravi oneri fiscali , da mancanza di sostegno da parte di istituti bancari , dei quali  alcuni coinvolti in attività speculative ad alto rischio e in gravi situazioni di bilancio negative  , per crediti non riscossi , da ostacoli burocratici  e legislativi , da diffusi fenomeni di illegalità nel mondo degli appalti pubblici , in materia di evasione fiscale , di corruzione e concussione,  tutti fattori negativi che incideranno non solo sulla sopravvivenza delle imprese , ma anche incideranno sul problema sociale ,in materia di lavoro e di occupazione ,sul funzionamento dei servizi pubblici , sullo stato sociale dei cittadini .
  A tali fattori , può aggiungersi anche quello riguardante le condizioni economiche  , di reddito e di lavoro della popolazione , anch’esse rese difficili a causa della eccessiva onerosità e iniquità del sistema fiscale ,  delle imposte e tasse , dei non sufficienti livelli di retribuzione  da lavoro , pubblico e privato , che determinano inevitabilmente diminuzione dei consumi , situazioni di stagnazione economica , recessione , sfiducia ad investire , alti livelli di disoccupazione specie giovanile , più gravi in zone del meridione ,dove la crisi è più pesante,   e quindi un complesso di fattori negativi sui valori percentuali  del Prodotto Interno Lordo del Paese , ai quali si associano aumenti di spesa pubblica , mancanza di progettualità politica in materia industriale e tecnologica e scientifica e di ricerca ,  mancata o troppo scarsa crescita economica , aumento del debito pubblico.  In definitiva , crisi sempre più grave del sistema socio-economico del Paese .
Rimedi possibili , pur sempre relativi , onde evitare peggioramenti della situazione economica e sociale del Paese , possono ricercarsi attraverso :
1 )   Una vera , reale “ riforma del sistema fiscale “ , oltre che , naturalmente , attraverso una seria riforma legislativa e burocratica nei rapporti fra Stato e mondo delle imprese, e cittadini contribuenti ;  attraverso una seria e decisa lotta contro ogni forma di illegalità , di evasione fiscale , contro ogni forma di attività illecita , contro la  criminalità organizzata.
2 ) Una ripresa degli “ investimenti pubblici “, in opere pubbliche di ristrutturazione , di manutenzione , di ammodernamento per quanto attiene alle strutture adibite a servizi pubblici e al bene comune , sul territorio e per la tutela dell’ambiente, per il risparmio energetico ,etc…
Riguardo alla “riforma del sistema fiscale , con la esenzione da imposte per redditi sino a mille euro , e con
 l’applicazione puntuale del principio costituzionale di imposizione fiscale  basato sul criterio di  progressività ( art.53 Cost.) , cioè sulla  effettiva capacità contributiva di chi percepisce redditi e  rendite finanziarie ,  incidendo maggiormente riguardo alle aliquote  sui redditi più alti e rendite più elevate.
Poi  si potrebbe seguire il criterio del  “ pagare di meno per pagare tutti “, non tanto abbassando il valore percentuale delle aliquote fiscali  nei confronti di tutti i percettori di reddito , quanto invece consentendo  di poter “ detrarre “  dalle imposte che vengono applicate in occasione di dichiarazione dei redditi , somme con valori percentuali  significativi e diversi ( es. 90 , 80 , 70 , 60 % )  , a seconda delle spese sostenute per taluni importanti servizi , per utenze di acqua , luce , gas ,  beni di carattere sociale ,  riguardanti l’affitto della casa di abitazione, spese sanitarie , spese per l’istruzione , per i beni di prima necessità , alimentari , abbigliamento ,  per acquisto di beni strumentali necessari al miglioramento della produzione imprenditoriale  , spese per ristrutturazione case e impianti energetici , spese di riparazione in appartamento di impianti , apparecchi , elettrici , idraulici ,  per acquisto di elettrodomestici ,  per l’IVA  …etc.. ;
Queste misure consentirebbero una drastica riduzione della evasione fiscale , e del  “ lavoro nero “  trovando l’utente o acquirente   più conveniente  farsi rilasciare lo scontrino , la fattura fiscale , che sarà utilizzata per il diritto alla relativa detrazione all’atto della dichiarazione dei redditi.
In definitiva , un sistema volto a ripristinare migliori condizioni e facilitazioni nel mondo dei rapporti commerciali , della domanda e dell’offerta di beni e servizi , nell’ambito delle possibilità di lavoro  e di avviamento di impresa , quindi un impulso effettivo e reale alla crescita economica  e allo sviluppo sociale del Paese ,  attraverso un risultato positivo riguardo al bilancio pubblico statale , posto che le minori entrate ricevute per via delle elevate detrazioni applicate , sarebbero ben compensate con maggiori entrate ottenute dalla forte riduzione della evasione fiscale , nonché del lavoro nero , contrastato da maggiori incentivi e da una maggiore trasparenza dei rapporti di lavoro  fra imprese e lavoratori , una politica di governo più equa e giusta , attraverso una concreta ed efficiente lotta alla criminalità organizzata , efficaci interventi per contrastare la evasione e la elusione fiscale , la corruzione , le illegalità nei rapporti fra pubblica amministrazione e cittadini, con la eliminazione di agevolazioni particolari per determinate caste , con la possibilità di corrispondere un reddito sociale minimo ai cittadini sprovvisti di redito .
Al fine di ottenere , quindi , più elevato “ prodotto interno lordo “ , maggiore trasparenza  e controllo della “ spesa pubblica “ ,  riduzione del “ deficit pubblico “ ( rapporto fra entrate e uscite ) , abbassamento dei livelli del “ debito pubblico nazionale “ , incrementi nel mondo della produzione e del lavoro determinante e importante “ crescita economica e sviluppo sociale “  del Paese .

                                                IL DEBITO PUBBLICO
Cosa è il debito pubblico  ?    Chi è ,  chi sono i creditori  ?  
Il debito pubblico  è un frutto avvelenato prodotto da un sistema finanziario di abusi , di tipo usuraio  ,  che si nutre di criteri speculativi del debito pubblico sulla base e in forza di calcoli sugli interessi progressivi imposti ad nutum da gruppi e società ,che stanno mettendo in ginocchio le economie reali di molti Paesi , impedendo ogni tentativo di ripresa economica fondata su investimenti produttivi reali e sociali , soggiogando politiche economiche alla speculazione finanziaria ,che arricchisce a dismisura gruppi di potentati a livello internazionale e crea situazioni e condizioni popolari di miseria e povertà ,sempre più vaste e drammatiche nel mondo.
Il debito pubblico lo possiamo definire come il debito che ha uno Stato nei confronti del settore privato e dell’economia, compreso famiglie, imprese, banche di credito ordinario e/o della Banca Centrale. Dall’altro lato, il settore privato e/o la Banca Centrale sono creditori nei confronti dello Stato.
In breve, il debito pubblico si crea quando uno Stato sostiene spese per importi superiori alle entrate.
Attenzione: Lo stato non può emettere e stampare più denaro per coprire le spese. Di conseguenza è costretto a emette Titoli, obbligazioni del Tesoro che, poi vende tramite asta pubblica. Chi le acquista le acquista ad un certo tasso di interesse all’anno.
Il fatto è che tutto ciò deve essere tenuto sempre sotto controllo, e quando la spesa pubblica aumenta in modo esponenziale, e non è compensata da una crescita delle imposte adeguate, allora il debito pubblico diventa un problema molto serio e preoccupante.
                           IL DISAVANZO PUBBLICO
Per disavanzo pubblico o o deficit pubblico si intende la differenza annuale (negativa) che intercorre tra le entrate di uno stato e le spese da esso sostenute.
Supponendo che in un anno lo stato incassi 50 milioni e ne spende 100, la differenza, pari a – 50 milioni, equivale al disavanzo pubblico. Se il debito pubblico anno per anno continua ad aumentare facendo aumentare anche il disavanzo pubblico, succede che il debito cresce, fino a diventare una spesa difficoltosa da rifinanziare.
Ogni anno il deficit pubblico va ad aggiungersi al debito pubblico del periodo precedente. In questo modo non si fa altro che aumentare il disavanzo pubblico.
E’ bene chiarire un altro aspetto legato al debito pubblico; lo Stato deve finanziare la spesa per l’anno in corso ovvero per consumi e/o investimenti pubblici in 2 modi:
  • tramite entrate fiscali;
  • tramite emissioni di titoli di stato.
Nel primo caso, lo stato prevede con le entrate fiscali dell’anno in corso inerenti a tasse ,  etc , effettui la spesa per un determinato periodo. Se questo fosse realmente attuabile, lo stato non avrebbe un debito , ma si parlerebbe di bilancio dello stato chiuso in pareggio. Ovvero le entrate corrispondono alle uscite.
Nel secondo caso, invece, si prevede che uno Stato, al fine di finanziare le spese correnti, emette dei titoli. Questo gli permette di procurarsi la liquidità necessaria che non deriva da un’entrata fiscale, ma attraverso un prestito derivante dal settore privato o anche dalla Banca Centrale.
Questo secondo caso, quello al momento attuale in Italia, prevede per uno Stato che le entrate fiscali non siano sufficienti a finanziare la spesa corrente. Quindi ne deriva che la liquidità di cui ha bisogno la deve per forza di cose procurare con l’emissione di obbligazioni.
In sostanza, lo Stato emette titoli pubblici, ovvero titoli BTp o Bot attraverso cui lo Stato riesce poi ad avere delle entrate al fine di rifinanziare il debito pubblico. Questo percorso però non è di facile attuazione, ma è ben più complesso di quanto ci si possa credere. In sostanza è più facile a dirsi che ad applicarsi.
Di conseguenza , attuando le emissioni di titoli di stato, non avremo altro che un deficit di bilancio, ovvero un valore negativo, poiché la differenza tra entrate fiscali e spese sarà negativa ; cioè avremo le spese maggiori dell’entrate.
Nella situazione attuale italiana, parte della spesa pubblica inerente all’anno (01 Gennaio – 31 Dicembre) viene finanziata con le entrate fiscali; un’altra parte invece viene finanziata con l’emissione di titoli di debito pubblico.
Oggi in tanti sostengono che le generazioni future saranno quelle che dovranno pagare le imposte con le quali verranno corrisposti gli interessi a tutti i titolari di obbligazioni, ovvero a tutti coloro che detengono titoli di debito pubblico.
In sostanza, il debito pubblico è definito come  un credito del settore privato nei confronti dello Stato. Pertanto, nell’economia reale vi sono creditori che ricevono benefici dal possesso dei titoli pubblici.
Al momento però possiamo solo costatare che sono le classi più deboli ad essere penalizzate. Queste infatti sono tassate con un imposizione più gravosa rispetto e in proporzione ai redditi percepiti.  
Il debito pubblico italiano , attualmente ,  ammonta a circa duemila e duecento miliardi di euro  ed è in crescita continua.
Ma chi detiene il debito pubblico italiano? La tabella che segue è interessante per verificare sia le cifre in oggetto, sia le dinamiche sul debito stesso:

DEBITO MAGGIO 2012
DEBITO  MAGGIO 2013




BANCHE 
931,55
1047,01




PRIVATI (FAMIGLIE E IMPRESE)
257,7
199,99




BANCA D’ITALIA
92,948
98,46




TOTALE ITALIA
1.282,198
1.345,452




DETENTORI ESTERI
693,499
729,107




TOTALE DEBITO
1.982,177
2.074,558




Fonte: Banca d’Italia (in miliardi di euro)
ITALIA. Anche se il debito italiano è stato accumulato in diversi anni, il vero problema è sorto con la crisi economica del 2008. Da allora l’economia in Italia non si è più ripresa. È l’unico paese del G7 che non è ancora riuscito a tornare ai livelli ante-crisi. Dal momento che i creditori sono soprattutto interni al paese (soprattutto banche) e il principale debitore è lo Stato, c’è chi teme lo scoppio di una crisi bancaria se il governo italiano non fosse in grado di adempiere ai propri obblighi. Il debito totale del paese è di circa il 132% del PIL.
Il 2007 resta scolpito negli annali economici dell’Italia, così come del resto dell’Occidente, come l’ultimo anno prima dello scoppio della più grave crisi finanziaria globale dai tempi della Grande Depressione. Se la maggior parte delle economie fatica ancora a tornare ai livelli di ricchezza toccati allora, con poche e illustri eccezioni (USA, Regno Unito e Germania), l’Italia è ben lontana dall’essersi ripresa, tanto che il suo pil è oggi di quasi il 9% in meno di quello del 2007, tenuto conto dell’inflazione. Ne ha risentito il debito pubblico ( vds  nota in calce ) , che non solo è passato da poco più del 103% di quell’anno al 133% di fine 2015, ma esso è anche cresciuto in maniera abnorme in valore assoluto, salendo nel contempo da 1.599 a 2.211,85 miliardi del novembre scorso. Il dato di dicembre, quello definitivo dell’ultimo esercizio disponibile, dovrebbe, però, essersi attestato al di sotto dei 2.200 miliardi, in virtù dell’avanzo finanziario, che tipicamente il Tesoro registra a fine anno.
L’enorme percentuale di debito pubblico italiano è posseduta dalle banche francesi e dalle banche tedesche. Insieme le istituzioni finanziarie tedesche e francesi possiedono il 59% del debito pubblico italiano detenuto all’estero. La Banca centrale europea possiede solo il 13% del debito pubblico. Ne concludiamo che l’importanza della situazione economica del nostro Stato a livello europeo è grandemente importante . Un’eventuale ristrutturazione del debito italiano colpirebbe gravemente tutto il sistema bancario tedesco e francese e di riflesso ovviamente anche gli Stati, che dovrebbero probabilmente intervenire per salvare le loro banche o certamente ricapitalizzarle abbondantemente.
Come per i popoli del Terzo Mondo , che  sono strozzati dal debito,  la stessa cosa avverrà coi popoli europei,  che si indebiteranno senza contropartita con la Bce per ogni euro messo in circolazione, così come i popoli del Terzo Mondo si sono indebitati con la Federal Reserve americana per i dollari messi in circolazione.
Il debito pubblico italiano attuale è generato dagli alti tassi d’interesse pagati sullo stesso a partire dal 1981 (anno del divorzio tra la Banca d’Italia ed il Tesoro), che per onorare il debito lo Stato impone tasse e balzelli di varia natura arrivando ad una pressione fiscale insopportabile per la popolazione.
Avendo constatato come il 90% del debito non sia in mano a famiglie od imprese italiane, possiamo affermare che ogni 100 euro di tasse pagate solo 10 rientrano al settore famiglie-imprese, mentre 90 vanno ad ingrassare la rendita bancaria (che detiene i BTP).
 Il sistema IF (Imprese-Famiglie) paga 100 e ne rientra in circolo appena 1/10. E’ la fine. Il prolungarsi di questa condizione in cui il progressivo livello di moneta nel sistema Imprese-Famiglie decresce, porta alla situazione attuale di profonda depressione, mancanza di domanda (output gap), chiusura di attività produttive, disoccupazione crescente, povertà e miseria.
Per alcuni paesi la causa principale dell’alto livello di indebitamento è stato lo scoppio delle bolle finanziarie durante i primi anni 2000, che hanno lasciato i contribuenti con i debiti delle istituzioni finanziarie che, con speculazioni selvagge, avevano collezionato perdite multi-miliardarie. Per altri paesi, il debito è invece un problema che arriva da lontano, con radici che affondano in un passato coloniale o in tassi di interesse esorbitanti sui rimborsi del debito.
È interessante notare come, in termini monetari assoluti, gli Stati Uniti detengono il più alto livello di debito, così come la più grande economia del mondo. Ma per molti altri paesi il confronto tra produzione economica e debito rende del tutto evidente che gli oneri sul debito sono in realtà ben al di là dei loro mezzi.
Quando parliamo di debito di uno Stato è importante distinguere debito pubblico e debito privato che uniti insieme costituiscono il cosiddetto debito aggregato.
In parole povere il debito pubblico è il debito che lo Stato contrae con vari creditori che possono essere a loro volta pubblici o privati per finanziarsi. Il debito privato invece, è quello contratto da famiglie e aziende che vivono e operano in quel determinato paese
In sostanza sarebbe stata la bolla dei debiti privati della periferia dell’Eurozona a determinare a partire dal 2009 l’attuale crisi economica. La crisi del debito privato ha coinvolto anche gli Stati che hanno cercato di salvare le banche in difficoltà a causa del credito facile, generando l’aumento del debito pubblico.
E’ un po’ quello che è accaduto dall’altra parte dell’oceano. La crisi dei mutui subprime negli Stati Uniti alla fine è stata risolta facendo affidamento sullo Stato.
L’Italia ha un debito totale vicino al 250% del Pil, formato per più del 130% dal debito pubblico. L’alto livello di debito pubblico italiano non è dato tanto dall’aumento di quest’ultimo, quando piuttosto alla forte diminuzione del Pil del Paese al quale il debito pubblico si rapporta.
 Al quindicesimo posto della classifica la Germania che ha un debito privato maggiore di quello pubblico. Sommando i due debiti il risultato del paese più virtuoso d’Europa sfiora il 200% del Pil.
Sommando quindi debito pubblico e debito privato l’Italia nella classifica dei paesi più indebitati si posiziona dopo Portogallo, Giappone, Belgio, Grecia, Olanda, Spagna, Regno Unito, Francia e Stati Uniti.
La seguente classifica  indica i primi 12 paesi più indebitati del mondo si basa sul debito pubblico in percentuale sul PIL (Prodotto Interno Lordo).
·  GIAPPONE. L’economia giapponese è quasi ferma dall’inizio degli anni ’90 e il suo debito è del 226% del PIL. Il governatore della banca centrale giapponese ha avvertito che i livelli estremi di debito del paese non sono sostenibili.
·  ZIMBABWE. Il paese, da oltre 15 anni, è in ritardo nel ripagare il suo debito al Fondo Monetario Internazionale e, per questo motivo, non è più ritenuto ammissibile a ricevere altri fondi. Il suo debito pubblico è stimato al 202% del PIL.
·  ST. KITTS AND NEVIS. Anche se la nazione caraibica ha un indebitamento complessivo di poco più di un miliardo di dollari, una somma relativamente piccola per gli standard internazionali, il fatto che la sua popolazione sia di soltanto 50.000 persone rende questo debito una cifra astronomica. Diversi fattori hanno contribuito al rapido aumento del debito del paese, compresi i costi di ricostruzione a seguito di vari uragani, il declino dell’industria dello zucchero e una contrazione del turismo. Il debito del paese è vicino al 200% del PIL.
·  GRECIA. Dopo la crisi del 2008 l’economia greca è crollata sotto il peso dei miliardi da restituire all’Unione Europea, alla Banca Centrale Europea e a Fondo Monetario Internazionale (la cosiddetta troika). La sua economia è scesa del 25% negli ultimi sette anni e il suo debito è a oltre il 170% del PIL.
·  LIBANO. Il debito del paese è esploso negli ultimi anni, principalmente a causa del rallentamento dell’economia. Nel 2013, per esempio, l’economia è cresciuta del 2% e il debito è aumentato del 10%. Il debito del paese è del 163% del PIL.
·  ITALIA. Anche se il debito italiano è stato accumulato in diversi anni, il vero problema è sorto con la crisi economica del 2008. Da allora l’economia in Italia non si è più ripresa. È l’unico paese del G7 che non è ancora riuscito a tornare ai livelli ante-crisi. Dal momento che i creditori sono soprattutto interni al paese (soprattutto banche) e il principale debitore è lo Stato, c’è chi teme lo scoppio di una crisi bancaria se il governo italiano non fosse in grado di adempiere ai propri obblighi. Il debito totale del paese è di circa il 132% del PIL.
·  PORTOGALLO. È stato il secondo paese europeo ad essere salvato da parte dell’Unione Europea e del Fondo Monetario Internazionale, dopo che il suo settore finanziario era sull’orlo di un collasso totale. Il suo debito è del 129% del PIL.
·  GIAMAICA. Il problema del debito per il paese è di lunga data, ma ha ormai raggiunto un punto in cui il governo paga il doppio di interessi di quanto spende per la salute e per l’istruzione. La trappola del debito è scattata nel 1980, quando il Fondo Monetario Internazionale ha prestato il denaro che serviva al paese per le importazioni di beni di prima necessità, i cui prezzi avevano subito forti aumenti. Da allora, la situazione è diventata disastrosa, con tagli selvaggi alla spesa pubblica e un aumento drammatico della povertà. Nel 2013 il numero di donne che sono morte per parto sono quasi raddoppiate rispetto al 1990, mentre il numero di bambini che completano gli studi della scuola elementare è sceso di oltre il 25%. L’ultimo dato disponibile sul debito pubblico del paese riportava un 127,3% del PIL.
·  IRLANDA. La crisi finanziaria del 2008 ha provocato l’espansione del debito pubblico, che prima di allora era relativamente basso. Il sistema finanziario del paese è virtualmente crollato e ha innescato un salvataggio delle banche organizzato dal governo che è costato svariati miliardi. Da allora il debito è stimato al 120% del PIL e i debitori sono la Banca Centrale Europea, il Fondo Monetario Internazionale e altri creditori internazionali. Al paese sono stati concessi 30 anni di tempo per ripagare il suo debito.
·  ISLANDA. L’economia dell’isola del nord Atlantico è crollata durante la crisi finanziaria del 2008, quando tutti e tre i suoi principali istituti bancari sono falliti. Lo Stato non aveva le risorse per un salvataggio completo e, per non fallire a sua volta, ha accettato un prestito, anche dal Fondo Monetario Internazionale, di oltre 5 miliardi di dollari, una somma enorme per un’economia il cui valore totale ammonta a circa 10 miliardi di dollari. Il debito è ancora al 119% del PIL.
·  ERITREA. Il debito del paese ammontava nel 2012 al 118% del PIL e non sono disponibili dati più recenti a causa della segretezza imposta dal governo. Una parte significativa del debito è stata generata dalle spese militari, da quando l’Eritrea ha combattuto una guerra con l’Etiopia nel 1990.
·  ANTIGUA E BARBUDA. Un’altra nazione caraibica che è stata costretta a chiedere aiuto al Fondo Monetario Internazionale è Antigua e Barbuda, nel 2010, quando il debito totale del paese era al 130% del PIL e il paese era nel mezzo di una crisi che da tre anni aveva ridotto la produzione economica del paese. Secondo stime recenti il livello di indebitamento si è ridotto all’89%.
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Nota  : 
Alla fine del novembre scorso, il debito pubblico italiano si attestava a 2.212 miliardi, di cui 1.871 miliardi in forma di titoli di stato. I restanti 340 miliardi sono passività, ma non espresse in bond, quasi del tutto degli Enti locali. Il rapporto tra debito e pil dovrebbe essersi attestato al 133% a fine 2015 e quest’anno dovrebbe scendere per la prima volta dopo 7 anni di crescita incessante, ma le previsioni indicano che il calo sarà contenuto, pari a meno di un punto percentuale. L’Italia continuerà ad essere gravata dal secondo debito più “pesante” in Europa, dopo quello della Grecia. In genere, si guarda alla soglia del 140% del pil come punto di non ritorno, perché quello sarebbe lo spartiacque tra un debito sostenibile e uno non sostenibile. Grazie all’intervento della BCE, che con il “quantitative easing” acquista titoli di stato, Abs e “covered bond” per un controvalore di 60 miliardi al mese, i rendimenti sovrani sono scesi ai minimi in tutta l’Eurozona, esclusa la Grecia, che non rientra nel programma. L’Italia sta emettendo i suoi bond a rendimenti infimi e il costo di rifinanziamento del nostro debito non è mai stato così basso, crollato ad appena l’1,35% nel 2014 e dimezzatosi ancora lo scorso anno.
Rendimenti bond bassi, ma solo per BCE
Ci troviamo dinnanzi al paradosso di possedere il debito pubblico più alto della nostra storia, ma di pagarlo a un costo minore record. Tutto bene, se non fosse che prima o poi questa fase “magica” sui mercati finanziari finirà. Non quest’anno, né forse l’anno prossimo, ma arriverà il giorno, in cui la BCE inizierà ad aumentare i tassi di interesse e a ridurre gli stimoli monetari. L’intera struttura dei tassi di mercato salirà e con essa il costo di emissione del nostro debito. Bisogna prepararsi all’appuntamento, come farebbe una formica durante la bella stagione, mettendo da parte il necessario per quando arriverà l’inverno. Ma l’Italia sta facendo tutto questo? La risposta è “ni”. Non si può certo dire che il nostro paese stia comportandosi da cicala, perché rispetta i limiti al tetto del deficit e ha tagliato in questi anni sia il rapporto deficit/pil – passato dal 3,9% del 2011 al 2,6% del 2015 – sia la spesa previdenziale, che in prospettiva rappresentava la maggiore fonte di preoccupazione per la tenuta dei conti pubblici, stabilizzandola.   [tweet_box design=”box_09″ float=”none”] Prepariamoci all’aumento del costo del debito, non a farne di altro   [/tweet_box]    
Sugli interessi relativi al famoso DPI (Debito Pubblico Italiano) ?

Gli interessi sui BOT sono meno di zero, quelli sui CCT sono pari a quelli dei BOT + uno spread che attualmente è lo 0,15 semestrale, ovvero lo 0,30 annuale, quindi il tasso annuo effettivo è intorno allo 0,20. Gli interessi sui BTP sono ancora un po' più alti, ma come sapete il famoso "spread" rispetto a quelli tedeschi viene calcolato solo su quelli a 10 anni, non molto numerosi. Oggi lo "spread BTP-BUND 10Y" (così viene definito in gergo tecnico) è circa 124 punti base, ovvero l'1.24, con un tasso effettivo di 1.40 circa. Solo 3 anni fa era 500 punti base, ovvero il 5%.
Negli ultimi 20 anni l’avanzo primario italiano ha rappresentato mediamente il 2,1% del Prodotto interno lordo (Pil) contro lo 0,2% della Germania. Il problema è che tanta abbondanza è finita nella voragine della spesa per interessi da pagare sul debito pubblico che, per l’Italia, ha significato 1.650 miliardi (pari al 6% del Pil), contro 1.058 miliardi d’interessi pagati dalla Germania (anche in questo caso dal 1995, pari al 2,4% del Pil), 870 miliardi dalla Francia (2,6% del Pil), 386 miliardi dalla Spagna (2,4% del Pil).
 «In sintesi», commenta Poli, «un debitore con debito elevato paga interessi più che proporzionali. E tutto questo è la conferma del peccato originale che l’Italia si trascina dal 1992, l’anno della firma del Trattato di Maastricht, sottoscritto pur avendo un parametro del tutto fuori controllo: il debito pubblico, che rappresentava il 104,7%del Pil contro il 42% della Germania, il 39,7% della Francia e il 45,5% della Spagna».

                  IL  PRODOTTO  INTERNO  LORDO  (  P I L  )

Il PIL (o prodotto interno lordo) misura il valore di mercato di tutte le merci finite e di tutti i servizi prodotti nei confini di una nazione in un dato periodo di tempo. La nozione di prodotto è riferita quindi ai beni e servizi che hanno una valorizzazione in un processo di scambio, ed è in parole molto semplici la ricchezza che un certo Paese è in grado di produrre nell’arco temporale di un anno.

Si tratta della somma totale dei beni e dei servizi che si producono per essere consumati all’interno di uno Stato.

Facendo un conteggio preciso del PIL si è in grado di determinare la ricchezza di un Paese per l’anno in questione, facendo un rapporto tra il prodotto interno lordo e il numero delle persone che vivono in quel determinato Paese.

In questo modo si ottiene il reddito medio di ogni cittadino, quindi si può individuare il valore della ricchezza del Paese in questione e definire se si tratta di uno Stato ricco o meno.
Si parla di Prodotto in quanto il PIL misura il valore dei beni finali prodotti, Interno perché la definizione e il calcolo del PIL prende in considerazione il valore finale dei beni e dei servizi prodotti internamente ad un determinato paese (indipendentemente dalla nazionalità di chi li produce), a differenza del Prodotto Nazionale Lordo (PNL) che in parte è conseguito all'estero.
Del PIL fanno parte i profitti realizzati dalle imprese straniere in Italia, viceversa i profitti realizzati dalle imprese italiane all'estero fanno parte del PNL italiano e del PIL dello Stato in cui hanno sede tali imprese.
Il termine Lordo invece fa riferimento al fatto che il PIL è al lordo degli Ammortamenti.
Esistono tre diverse metodologie per calcolare tale grandezza. La prima, chiamata "Metodo della Spesa", permette di ottenere il PIL attraverso la somma dei Consumi (spesa delle famiglie in beni durevoli, beni di consumo e servizi), degli Investimenti (spesa delle imprese e delle famiglie in immobili) della Spesa Pubblica e delle Esportazioni nette (differenza fra esportazioni ed importazioni).
Il secondo criterio si basa sul "Metodo del Valore Aggiunto". Il PIL in questo caso viene quantificato sommando i valori dei Beni e dei Servizi prodotti dalle imprese. Per eliminare tutte le duplicazioni che intervengono nella catena del valore di un bene, ad ogni stadio della produzione viene contabilizzato, come parte del PIL, solo il valore aggiunto al bene in questione in quello specifico stato della produzione. Il Valore Aggiunto può essere quindi definito come la differenza tra il ricavo ottenuto dalla vendita e la somma pagata per l’acquisto delle materie prime e dei semilavorati utilizzati nel processo produttivo.
L’ultimo metodo, che può essere utilizzato per la misurazione del PIL, è invece il "Metodo dei Redditi". Il Prodotto Interno Lordo può essere, infatti, ottenuto come somma delle Retribuzioni e dei Redditi da Capitale. Quello che però è altrettanto importante sottolineare è che questi tre metodi conducono tutti al medesimo risultato.
Un ultima distinzione che si può fare parlando di PIL è quella tra PIL nominale e quello reale.
Il PIL è nominale in quanto misura il valore finale della produzione in un certo periodo ai prezzi di quel periodo (prezzi correnti) questo vuol dire che il valore della ricchezza di una determinata nazione in un determinato periodo risente dell’inflazione, cioè del fenomeno dell’aumento costante dei prezzi.
Il PIL reale viceversa esprime un valore reale della produzione di beni e servizi, sterilizzato dall'effetto dell'inflazione e misura la produzione in termini di effettivo potere d’acquisto della collettività. Per passare dal PIL monetario al PIL reale è necessario eliminare le conseguenze sui prezzi dovute al tasso d’inflazione.
Una crescita inattesa del PIL ha degli effetti positivi sui mercati azionari poiché comporta un incremento degli utili aziendali e quindi dei prezzi dei titoli. Un aumento eccessivo e non previsto del PIL può tuttavia avere anche un effetto contrario sulle piazze azionarie, dal momento che un’espansione troppo forte dell'economia rischia di alimentare la spirale dell'inflazione. Per queste molteplici ragioni l'andamento del PIL rappresenta una misura chiave nello scenario macroeconomico di un paese e viene dunque monitorato con grande attenzione dagli operatori finanziari.
Il PIL, solitamente viene calcolato ogni anno, ma può essere anche calcolato ogni mese. Se il valore del PIL diventa positivo, significa che la crescita economica è in atto nel paese. Se invece la crescita è negativa, ovvero se la differenza del PIL è negativa, stiamo all’interno di una contrazione economica.
Ci sono tanti altri fattori che sono estremamente correlati al PIL:
Reddito pro-capite: viene calcolato con il valore reale del PIL per la popolazione
Deflatore del PIL: viene calcolato con la divisione tra PIL nominale e PIL reale
Rapporto deficit/PIL: viene calcolato essenzialmente con la somma del deficit delle amministrazione pubbliche in relazione con il Prodotto Interno Lordo
Per PIL pro capite si intende invece la quantità di prodotto interno lordo (PIL) che viene ipoteticamente posseduta, in un certo lasso di tempo, da un gruppo di cittadini. Solitamente il PIL pro capite, viene riportato in unità di moneta per 1 anno, in relazione agli interi stati.
Il PIL è composto essenzialmente da 4 elementi:
– Consumi (C) – che è il totale delle spese dei consumatori per beni e servizi
– Investimenti (I) – sono tutte quelle spese e investimenti delle imprese
– Spesa Pubblica (G) – sono tutte quelle spese delle pubbliche amministrazioni per beni e servizi
– Saldo netto Bilancia Commerciale (NX)
Il PIL in Italia, è “non” sorprendentemente uno dei peggiori, l’Italia è in Europa all’ultimo posto per la crescita del PIL. La mappa è infatti una delle più scoraggianti e impressionanti. La crescita del PIL negli ultimi 20 anni da parte dei paesi occidentali, è estremamente inferiore rispetto ai paesi a est. A ovest invece, tra le varie crisi economiche e boom, la crisi è stata enorme, anche se in realtà l’Unione Europea avrebbe dovuto portare una ventata di crescita e uniformità economica. Così non è stato. In quanto la crescita del PIL negli ultimi 20 anni in Italia, è stata di solo l’1.8%, 28.7% invece in Germania, 86,1% in Irlanda. Anche la Grecia ha fatto meglio dell’Italia, con +13.5%. La Germania è cresciuta del 28,7% più della Francia, +20,7% e della Spagna, +23,9%, ma meno del Regno Unito, +33,8% e soprattutto meno dell’Irlanda, che da grande leader europea ha il record massimo, + 86,1%.
Molto bene anche Svezia e Finlandia, +41% all’incirca.
L’italia è quindi in una grave crisi anche per ora del PIL, e dell’assenza di crescita, in particolar modo al Sud, che è sempre rimasto ben al di sotto della media europea, sia oggi che negli anni 90 e 80. Se noi italiani volessimo raggiungere almeno la Francia, dovremmo crescere dell’1% in più rispetto ai Francesi, impossibile.
La realtà dell’Italia, è che il mercato nero rende praticamente inaffidabile il dato sul PIL. Il mercato nero è sempre una realtà in Italia, soprattutto con le leggi fiscali sempre più stringenti. Il mercato nero sommerge quindi il Prodotto Interno Lordo. Infatti, se si considera anche il traffico di droga, prostituzione, contrabbando di sigarette e altre attività illegali, l’Italia non è più in recessione.
Il nuovo sistema contabile, chiamato anche Sistema europeo dei conti nazionali e regionali (Sec 2010) è stato adottato a fine 2014, con il fine di facilitare il confronto tra i Paesi dell’Unione Europea, a prescindere dal fatto che questi paesi abbiano legalizzato o meno la prostituzione, depenalizzando poi il commercio degli stupefacenti.
 Con questo cambiamento, l’Italia ha scoperto che il suo PIL non è più sotto dello 0,1%, ma che in realtà è ben superiore.
Il nuovo sistema, utilizzato dal 2014 in poi, ha letteralmente “cambiato” i dati sul PIL italiani . In base  agli ultimissimi dati trimestrali,  il conteggio del PIL è stato nel 2013 ( da – 0,1 a  0,2 )  -  nel 2015 ( da 0,4 a 0,2 ) – nel 2016 ( da 0,2 a 0,3 ) 


                                         LA  POVERTA’  IN  ITALIA
E’ vergognosamente  inconcepibile , scandaloso ,  che in una Società “ civile “ , come l’Italia , in cui  il  71 %  in media fra  nord  e  sud  delle  famiglie  sono  proprietarie di casa e dove sono in circolazione circa 37 milioni di autovetture ,  vi siano ancora  persone  costrette a vivere in condizioni di “ povertà assoluta “  ( circa 4,5 milioni ) .
La cosa più scandalosa e assolutamente non più sopportabile , è il  fatto che persista pervicacemente il mantenimento  di troppo elevati emolumenti economici e nella specie dei vitalizi ancor più scandalosi ,  che continuano  ad essere attribuiti e regolarmente fruiti da parlamentari  , come anche i casi di troppo elevati emolumenti , fra  stipendi e indennità varie , percepiti cumulativamente sia da parlamentari  che da altre persone che ricoprono cariche politico-istituzionali  , mentre la  povertà  in  Italia  aggredisce  milioni  di persone , che  sono ridotte allo stremo , le quali devono la loro sopravvivenza solo a quelle altre persone , fortunatamente non poche , ma sempre insufficienti ,  che danno loro , volontariamente , singolarmente , in modo  personale spontaneo ,  oppure in strutture onlus , una qualche assistenza ,soprattutto alimentare oltre che di natura psicologica e possibilmente di una relativa, limitata e provvisoria sistemazione , come riparo dagli agenti esterni.
E’  vergognosamente colpevole quel Governo  che  non riesce , perché non vuole o perché non è capace , a reperire  le risorse economiche necessarie , che possono ricavarsi dalle fonti finanziarie più ricche  e dai redditi più elevati  di quella parte della collettività che è più  agiata ,  per consentire a chi  è in  condizioni di povertà , o addirittura  di “povertà assoluta “ ,  di poter fruire gratuitamente di una abitazione umanamente dignitosa , e di una  assistenza socio-sanitaria , oltre che di una minima basilare fonte di reddito individuale. Negli 8.101  comuni d’Italia  è  enorme il numero delle abitazioni e degli immobili ad uso commerciale e terziario non utilizzati, vuoti e sfitti. (Quasi cinque milioni in Italia, possono essere nuovi beni comuni ).
. Da quando è stato abolito il servizio di leva obbligatorio, centinaia di caserme dismesse sono state abbandonate al degrado e all'incuria e  che potrebbero essere utilizzate per fare fronte all'emergenza abitativa, per i cittadini privi di una abitazione.
Oggi la Chiesa in Italia possiede circa 100 mila immobili, tra i quali vi sono 9 mila scuole, 26 mila tra chiese, oratori, conventi, campi sportivi e negozi e 5 mila tra cliniche, ospedali e strutture sanitarie e di vario genere. Più difficile capire quanti siano hotel, residence e strutture ricettive in genere, perché per la maggior parte sono di proprietà di ordini di frati e suore, e non delle diocesi.
Si tratta comunque di molte migliaia di imprese, perché tali sono, e  Papa Francesco oggi prova a scongiurare l'avanzata della componente ecclesiale più orientata al business che alla carità di cui c'è sempre più bisogno.
                                Note  sulla  “ povertà “ in  Italia
Considerando che nella popolazione italiana ( circa 60 milioni  e 700.000 ) vi sono  circa  4 milioni  e centomila  di  persone  in povertà assoluta , (circa  il  6,8  %  ) e  altri 6 milioni  ( circa il 10 % ) in povertà relativa . 
  Del  totale della popolazione italiana
Il 20% più ricco (  circa 12  milioni  di persone )  detiene il 61,6% della ricchezza  , e  anche nella fascia più ricca, la distribuzione è nettamente squilibrata a favore del vertice. Infatti , Il 5%  (  circa 3 milioni di persone ) più ricco della popolazione detiene  il 32,1% della complessiva  ricchezza nazionale . 
Mentre   il 20%   ( 12 milioni di persone )  è  appena al di sotto del 20,9% della  ricchezza .
 Il restante 60%  ( 36  milioni  di  persone ) si deve accontentare del 17,4% della ricchezza nazionale,  e  dei  quali   il 20%  ( 12 milioni di persone ) più povere ,  ha  appena  lo 0,4 %  della ricchezza.


                    MISURE  CONTRO  LA  POVERTA’  IN  ITALIA


Gli ultimi dati Istat sono un nuovo monito sulla crescita della povertà in Italia. Nello stesso giorno della loro pubblicazione, la Camera ha approvato il disegno di legge delega che prevede l’istituzione del reddito di inclusione.
Recentemente
l’Istat ha comunicato che nel nostro paese sono oltre 8,3 milioni le persone in condizioni di povertà relativa (ossia quando una famiglia di due componenti spende meno della singola persona media), mentre sono 4,5 milioni quelle in povertà assoluta
Il  reddito  di  inclusione  è  una misura strutturale di lotta alla povertà, il disegno di legge delega, che dopo varie modifiche è stato approvato proprio il 14 luglio 2016 dalla Camera dei deputati.
Il disegno di legge, centrato attorno al cosiddetto reddito di inclusione, è caratterizzato da tre aspetti importanti, finora trascurati nel sistema di lotta alla povertà in Italia: universalità, efficienza e complementarietà a un reinserimento nel mercato del lavoro e nel contesto sociale di appartenenza. Il reddito sarà universale rivolgendosi, uniformemente su tutto il territorio nazionale, a tutti coloro che vivono al di sotto della soglia di povertà assoluta; l’assegnazione avverrà a livello di nucleo familiare e sarà basata sull’indicatore della situazione economica equivalente (Isee). In attesa dei decreti attuativi, il governo sostiene che l’ammontare elargito arriverà fino a 320 euro al mese.
Una delle critiche maggiori al Ddl è la limitatezza della platea a cui si rivolge. Con lo stanziamento di soli 1,6 miliardi per i primi due anni, la misura non raggiungerà tutti coloro che versano in condizioni di povertà; secondo l’Alleanza contro la povertà il provvedimento potrà raggiungere al massimo il
30 per cento degli indigenti, ovvero circa 1,3 milioni di persone. In particolare, il reddito darà la priorità ai nuclei familiari con figli minori, con disabilità grave, con donne in stato di gravidanza accertata o con persone con più di 55 anni di età in stato di disoccupazione. Il Ddl rimane poi vago sullo stanziamento a regime, menzionando che partirà da un miliardo e verrà esteso in base alle risorse contingenti. La proposta originale dell’Alleanza contro la povertà, invece, prevedeva uno stanziamento graduale del reddito d’inclusione ma con un costo a regime di circa 7,1 miliardi annui. Le risorse arriveranno dal Fondo per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale, istituito con l’ultima legge di stabilità, e coperto dalla fiscalità generale, in quanto le economie derivanti dal riordino delle prestazioni di natura assistenziale, sebbene destinate al fondo, sono considerate eventuali. L’Italia si colloca agli ultimi posti in tutta l’Unione Europea per quanto riguarda l’efficacia delle misure di contrasto alla povertà. Nel 2014 i trasferimenti sociali e gli interventi di sostegno nel loro complesso hanno diminuito la percentuale di popolazione a rischio di povertà del 5,3 per cento contro la media europea dell’8,9 per cento; solo Grecia e Romania hanno fatto peggio di noi. Un intervento strutturale e organico nel contrasto alla povertà, ispirato a principi universalistici, e un riordino del sistema assistenziale, ora frammentato e inefficiente, potrebbero finalmente migliorare queste statistiche in un momento in cui la coesione sociale è sempre più a rischio.
Note  da  Rapporto  Svimez   2015
Sulla  situazione economica del Mezzogiorno d’Italia
.Pil negativo per il settimo anno consecutivo, con una crescita che dal 2001 al 2013 è stata meno della metà di quella della Grecia. Divario record al 53,7% del Pil pro capite rispetto al resto del Paese. Investimenti che continuano a cadere. Industria al tracollo, con un valore aggiunto precipitato del 38,7% dal 2008 al 2014. Donne e giovani fuori dal mercato del lavoro. Nascite al minimo storico da 150 anni, che preannunciano uno «tsunami demografico». E un rischio su tutti: «Il depauperamento di risorse umane, imprenditoriali e finanziarie potrebbe impedire al Mezzogiorno di agganciare la possibile nuova crescita e trasformare la crisi ciclica in un sottosviluppo permanente».
Performance di gran lunga peggiore della Grecia
Dal 2001 al 2014 il tasso di crescita cumulato della Grecia è stato pari a -1,7%. La performance più negativa dell’intera eurozona, ma mai quanto il Meridione d’Italia: -9,4%, contro il +1,5% del Centro-Nord.
Il malessere del mondo produttivo
Colpiscono le cifre sull’industria, per quel già citato crollo degli investimenti del 59,3% dal 2008 al 2014, oltre il triplo del calo pesante registrato al Centro-Nord (-17,1%), e per la flessione del 35% del valore aggiunto, a fronte del -17,2% nel resto d’Italia. Nello stesso periodo calano anche le costruzioni (-47,4% gli investimenti, -38,7% il valore aggiunto) e i servizi (-33% gli investimenti, -6,6% il valore aggiunto). Non va meglio per l’agricoltura: investimenti -38%. Negative anche le esportazioni: nel 2014 sono calate del 4,8% contro la crescita del 3% al Centro-Nord. E si sono dimezzate al Sud le agevolazioni alle imprese sul totale nazionale: erano il 63,5% nel 2008, sono diventate il 33,2% nel 2013. Il pericolo, per Svimez, è quello già denunciato nel Rapporto 2014: una «desertificazione industriale».
Il lavoro che non c’è: nel 2014 occupati sotto i 6 milioni
Inevitabili i riflessi sull’occupazione. Negli anni della crisi nel Mezzogiorno è caduta del 9%, oltre sei volte più che al Centro-Nord. Delle 811mila persone che hanno perso il lavoro tra il 2008 e il 2014, ben 576mila sono residenti al Sud. Che concentra il 26% appena degli occupati d’Italia ma il 70% delle perdite determinate dalla recessione. Nel solo 2014 il Meridione ha perso 45mila posti, arrivando a 5,8 milioni di occupati, sotto la soglia psicologica dei 6 milioni e raggiungendo il livello più basso almeno dal 1977, l’anno da cui sono disponibili le serie storiche dell’Istat. Una prova - spiega la Svimez - «del processo di crescita mai decollato» e del «livello di smottamento del mercato del lavoro meridionale».
Allarme donne e giovani
C’è un allarme specifico che riguarda le donne (lavora soltanto il 20,8% contro una media Ue del 51%) e i giovani: tra il 2008 e il 2014 il Sud ha perso 622mila posti tra gli under 34 (-31,9%) mentre ne ha guadagnati 239mila tra gli over 55. Per gli under 24 nel 2014 il tasso di disoccupazione ha sfiorato il 56%, contro il 35,5% del Centro-Nord. Parla da solo il dato sui neet (quelli che non studiano e non lavorano): nel 2014 in Italia sono aumentati del 25% rispetto al 2008, arrivando a 3,5 milioni. Quasi due milioni sono meridionali.
In arrivo «tsunami» demografico
A tutto ciò si aggiunge il calo delle nascite, che non accenna a fermarsi (persino gli stranieri iniziano a fare meno figli), e la migrazione verso il Centro-Nord che dal 2001 al 2014 ha interessato oltre 1,6 milioni di persone. «Un intreccio perverso», lo definisce la Svimez. «Il Sud sarà interessato nei prossimi anni - avverte il rapporto - da uno stravolgimento demografico, uno tsunami dalle conseguenze imprevedibili, destinato a perdere 4,2 milioni di abitanti nei prossimi 50 anni, a fronte di una crescita di 4,6 milioni nel Centro-Nord».
Una persona su tre a rischio povertà
Il risultato è la povertà: dal 2011 al 2014 le famiglie assolutamente povere sono aumentate in Italia del 37,8% al Sud e del 34,4% al Centro-Nord. Ma nel 2013 una persona su tre nel Mezzogiorno era a rischio povertà, contro una su dieci al Centro-Nord. Sicilia e Campania le regioni dove il pericolo è più elevato. Quasi il 62% dei meridionali guadagna meno di 12mila euro annui, contro il 28,5% del Centro-Nord. Ennesima faccia di un Paese «sempre più diviso e diseguale».

               LA  CRISI  DELLE  PICCOLE  E  MEDIE  IMPRESE
Nel 2013 in Italia hanno chiuso in media 54 imprese ogni giorno, due ogni ora. Lo scorso anno su tutto il territorio nazionale si sono registrati 14.269 fallimenti, in crescita del 14% rispetto al 2012 e del 54% rispetto al 2009. Di fatto in cinque anni sono sparite dalla mappa nazionale 59.570 imprese, in un trend di costante aumento dall'inizio della crisi a oggi, con il suo picco nell'ultimo trimestre 2013: un nuovo record di 4.257 fallimenti (+14% rispetto al quarto trimestre 2012, +39%              ( Ilaria Vesentini - Il Sole 24 Ore -)
A scattare la drammatica fotografia è Cribis D&S, la società del gruppo bolognese Crif specializzata nella business information nella sua periodica «Analisi dei fallimenti in Italia». «Nonostante alcuni timidi segnali di miglioramento negli indicatori dell'economia italiana – commenta l'ad di Cribis D&B, Marco Preti, il conto dei fallimenti mostra una situazione ancora molto preoccupante e il picco del quarto trimestre 2013, dopo cinque anni caratterizzati da un trend in costante peggioramento . ( Ilaria Vesentini - Il Sole 24 Ore –)
Continua ad avanzare la desertificazione di attività commerciali e pubblici esercizi nei centri urbani. Secondo le stime dell'Osservatorio Confesercenti, anche nel 2015 il bilancio tra aperture e chiusure di negozi, bar e ristoranti sarà in rosso, con un saldo negativo di oltre 29 mila imprese. Un crollo meno grave di quello registrato nel 2014 (-34mila) ma comunque peggiore delle attese. Il calo delle chiusure, il primo in cinque anni, è infatti quasi annullato dalla frenata delle aperture: in totale quest'anno si stima che inizieranno l'attività circa 37mila nuove imprese, contro le oltre 42mila che hanno aperto lo scorso anno e le 45mila nel 2013. Il 2015 è il quinto anno consecutivo di contrazione per il commercio in sede fissa, la ristorazione ed il servizio bar. In totale, dal 2011 ad oggi, questi tre settori hanno registrato circa 207mila aperture e 346mila chiusure, per un saldo negativo di poco meno di 140mila imprese. In media, negli ultimi 5 anni, ogni giorno hanno aperto 114 imprese e 190 hanno chiuso, per un saldo giornaliero negativo di 76 attività.

       LA  LOTTA  ALLA  CORRUZIONE ,  ALLA  EVASIONE  FISCALE ,  ALLA  CRIMINALITA’  ORGANIZZATA
                                        CORRUZIONE  E  MALAFFARE
   Ci  lamentiamo  perché , pur  dovendo pagare  tante  tasse  ,  i servizi  pubblici  funzionano  male  o  sono  gravemente  insufficienti   e  la  crescita economica e sociale nel  nostro Paese  è  troppo  lenta  rispetto a  quella  di  altri Paesi europei , nonostante la presenza di  attuali  condizioni congiunturali più favorevoli  rispetto agli  anni  passati ? 
La  risposta  più  immediata , naturalmente ,  è  quella  che  riguarda  la  politica  del Governo  e  degli  Organi legislativi  sulla  gestione delle risorse  pubbliche .
 Infatti ,  se  vi  sono  carenze  o  inefficienze ,  le  cause  sono  dovute   a  motivi  ben precisi e diversi :
  al  fatto  che  vi  sono  troppi  sprechi di denaro ; troppe opere pubbliche rimaste incompiute , eccessivi costi  e ritardi nelle  relative realizzazioni ; inadempienze  e   violazioni di norme in materia di appalti ;  molto  gravi le condizioni di disuguaglianza  e di sperequazione economica fra  ceti sociali  per  una  iniqua  redistribuzione  della  ricchezza  nazionale  e   un  iniquo  sistema  di  imposizione  fiscale ;  che  l’apparato burocratico  degli  enti  pubblici  è  troppo  complesso , inutilmente  ripetitivo , dispersivo  e  quindi  economicamente oneroso , difettoso nella organizzazione e controlli  gestionali  e quindi  nella resa ed efficienza lavorativa-burocratica ; che  l’apparato giudiziario risente di carenze strutturali , di personale , di complessità procedurali  e quindi di lentezze decisionali  e sovrabbondanza di pendenze  processuali ; che il sistema penitenziario  presenta  gravi  carenze  di  ordine strutturale , carceri insufficienti  e quindi  sovraffollate , carenze di personale di vigilanza penitenziaria ; che  gli  apparati  preposti all’ordine pubblico  risentono anch’essi  di carenze strutturali , di mezzi e di personale operativo ;  che  l’apparato  sanitario  presenta  gravi  squilibri  strutturali e funzionali  nell’ambito  delle  diverse  regioni  d’Italia ;  che  gli  istituti   scolastici  accusano  gravi  carenze sotto l’aspetto della manutenzione  e  sicurezza  strutturale  degli  immobili  ;  che  in  tutto il territorio nazionale  sono assai carenti  le  opere  di  salvaguardia  e  della messa in sicurezza  di luoghi abitativi  riguardo  al rischio  sotto l’aspetto  idrogeologico  e  degli eventi  tellurici .
Problemi  gravissimi   , tutti questi ,  ma  che  potrebbero  essere  risolti  positivamente ( vds. “ Proposte “  elencate  sotto ) , ed  anche  in tempi  ragionevolmente non lunghi ,   solo  che  vi  fosse  , da parte dei predetti  Organi di Governo e Legislativi ,  la reale  “volontà “  politica  di  risolverli , con  decisione e in modo responsabile  e con  elevato  senso  istituzionale  e  di  giustizia sociale.
Però ,  oltre  alla “volontà  e  capacità politica “  quali presupposti fondamentali , vi è un altro  e  ben  più  influente  fattore , che  è  al  di  fuori  dell’ambito  delle  competenze  organizzative  e  gestionali  di  carattere  politico - istituzionale  ;  tale  fattore  riguarda  la  “ Moralità nel senso della Onestà “  , non  solo riguardo a  chi riveste incarichi e responsabilità pubbliche , bensì anche  riguardo  ai comportamenti  dei privati cittadini  nell’ambito dei rapporti  sia privati , sia con i pubblici dipendenti .
  La  Moralità  , nel senso della onestà e correttezza,  è  il binario  insostituibile  sul  quale  deve  procedere  la  locomotiva  dell’amministrazione pubblica  riguardo  alla  gestione del “ bene  e  delle risorse pubbliche “ , affinché  possa  esservi  vera  e  reale  evoluzione  e crescita  sociale  nel Paese .
Nessun  programma  governativo ,  di  qualsiasi  colore  politico  esso  sia  ,  può  sortire  buoni  risultati  o  comunque soddisfacenti  per  l’interesse  ed il bene  della collettività ,  se  chi  vi  mette mano  o  in  qualche  modo  ne  è  interessato , approfitta  della  propria  posizione pubblica  per  trarne  un  vantaggio personale  illecito , attraverso la corruzione , la concussione , l’abuso d’ufficio , etc..  
Così come  non  possono  ottenersi  condizioni  di  benessere  sociale  e  convivenza  civile , se  nello  stesso  ambito   della  cittadinanza  ,  il  fenomeno  dei  comportamenti  illegali ,  della  violazione  delle  leggi , viene  ad  assumere  livelli  allarmanti  per  la  sua  diffusione  e capillarità  nei  più diversi  ceti  sociali ,  per  la  crescente  mentalità  di  considerare  lo Stato  come un  Ente  estraneo  e  conflittuale  ,  e le sue leggi come ostacoli  al raggiungimento  di ciascun  interesse privato .
In  conclusione , una “ Società “  in  cui la  corruzione  ed  il  malaffare , nonché  i  traffici  della  criminalità  organizzata  , assumono  ad  ogni  livello  posizioni  di  rilievo  e  sempre più pericolose , è destinata  ad  essere  drasticamente  e  irrimediabilmente  emarginata  da  ogni  contesto  internazionale , e  conseguentemente  a  diventare  sempre meno  competitiva ; destinata   a registrare  aumenti  di  ceti sociali sempre più poveri ,  disuguaglianze  profonde  rispetto a minoranze sempre più ricche e benestanti ; e conseguentemente , gravi  insofferenze  popolari  e  disaffezione  e sfiducia  verso  le istituzioni  dello  Stato  e  della politica.
                                            Proposte 
che potrebbero essere avanzate  al  fine di  poter rimediare ai  danni  ed  evitare  le  conseguenze  negative  prodotte  da  fattori  di  inefficienza  e  carenze  riguardo  alla  gestione  da  parte  degli  Organi politico-istituzionali  delle  risorse  e  dei  beni  pubblici  e  dei  servizi  di  interesse pubblico , nonché riguardo al sistema fiscale :  
  1 )   Realizzazione  della “ Banda larga “   in tutto il territorio nazionale;
 2 ) Trasparenza  e  pubblicità , con  obbligo  da  parte  dell’Ente pubblico  di  consentire  a qualsiasi cittadino utente  ogni  possibilità di libero accesso , attraverso apposito  sito  internet , degli atti , provvedimenti  e   documenti  economico- finanziari e  normativi  emessi  e  prodotti dagli  Enti  Pubblici , a qualsiasi livello istituzionale , nonché  la possibilità di prendere  conoscenza  dei tempi  e dei costi  di  esecuzione  di tutti  gli  incarichi e progetti  di  opere  pubbliche  e di  servizi di pubblico interesse relativi all’ente pubblico interessato
 3 )  Semplificazione  delle norme  burocratiche procedurali  riguardo agli uffici  e delle pratiche  nei servizi delle Pubbliche Amministrazioni , accorpamento  di  uffici  ed  incarichi  e servizi  pubblici , con  istituzione  di  appositi  centri  amministrativi ,  aventi  sportelli  “ polifunzionali “ ,  attraverso  i  quali  poter  richiedere  informazioni , produrre  e  ricevere atti  e documenti ,  in modo contestuale , anche riguardo a pratiche  amministrative di diversa natura e specie .
  4 ) Responsabilizzazione  del personale dipendente della Pubblica Amministrazione , in primis riguardo ai dirigenti ,  in ordine agli incarichi di ufficio nei servizi amministrativi  e burocratici , attraverso sanzioni disciplinari  e penalizzazioni di tipo economico , in caso di accertate violazioni delle norme comportamentali ed esecutive attinenti  ai doveri d’ufficio ;  
5 ) Adeguamento  quantitativo e professionale dell’Apparato della Salute Pubblica , con rinforzo degli Organici di personale medico e paramedico , attraverso una più efficiente organizzazione dei servizi sanitari e collocazione di più  numerosi   siti ospedalieri , specie di Pronto Soccorso , in zone di più facile accesso e  riordino delle  spese  e  dei  costi  sanitari  per strutture , e prodotti farmaceutici , attraverso protocolli  unificati a livello nazionale  e  interventi  ministeriali di controllo gestionale ;
 6 ) Adeguamento quantitativo e professionale  dell’Apparato  giudiziario , con rinforzo  degli organici del personale , magistrati ed operatori amministrativi e penitenziari , ampliamento e  ammodernamento  delle strutture giudiziarie e penitenziarie , semplificazione  delle  norme  procedurali in materia di processi civili e penali ;
7) Adeguamento quantitativo e professionale , con rinforzi degli Organici di personale ,  con ammodernamento di mezzi e di strutture , riguardo all’Apparato della Sicurezza Nazionale e dell’ Ordine Pubblico ;
 8 )  Adeguamento quantitativo  e messa in sicurezza delle  strutture  immobiliari  e  strumentali  degli  istituti scolastici , nel loro complesso in tutto il territorio nazionale e adeguamento professionale degli organici del corpo insegnanti , in funzione delle nuove realtà costituite dalla immissione di soggetti immigrati;
 9 ) Interventi di monitoraggio in ordine alla complessiva situazione e condizione idrogeologica in tutto il territorio nazionale , con particolare attenzione e urgente attivazione di manutenzione e messa in sicurezza  in quelle zone più a rischio di smottamenti franosi e di esondazioni di fiumi e torrenti , di fenomeni tellurici ;
10 ) Riforma  del sistema fiscale , con rimodulazione delle aliquote fiscali  finalizzata a ridurre  drasticamente  le disuguaglianze , le differenze  quantitative degli importi di reddito fra i ceti  meno abbienti  e quelli  a più alto reddito , in modo da realizzare  una redistribuzione della ricchezza in misura più equa fra i contribuenti e consentire la corresponsione di un reddito minimo garantito a tutti quei cittadini  privi di reddito , disoccupati , inoccupati , inabili.
11 ) Realizzazione di più efficaci misure e mezzi di contrasto alla evasione e alla elusione fiscale , nonché ai traffici illeciti di denaro , di droga , di armi , di prostituzione , alla corruzione , attuando rapidi e decisi interventi esecutivi di confisca di beni e incameramento nelle casse dello Stato di somme di denaro  ricavate ,  a seguito di condanne  per  attività illegali . 

           
                  La corruzione in Italia



Il nostro paese è 10° nella classifica dei paesi del G20 peggio di noi solo la Bulgaria
Ogni anno la Transparency International stila una lista del grado di corruzione presente nei paesi del mondo e da questa classifica è emerso che nel 2015 l’Italia era 61a nella classifica mondiale e 10a nella classifica europea. I dati restano quindi sconfortanti sul piano internazionale e nella classifica ci batte in corruzione solamente la Bulgaria, ma siamo superati ad esempio da paesi europei come la Romania e la Grecia. Rispetto al 2014 siamo comunque migliorati – anche se lievemente – infatti due anni fa eravamo primi in classifica per corruzione anche se – come scrive Trasparency in una nota – non esiste un modo assolutamente affidabile per calcolare i livelli onnicomprensivi di corruzione dei Paesi o territori sulla base di dati empirici oggettivi. Ma ciò non ci rende indietro comunque l’onore…infatti vi è una sostanziale conferma sulla pessima reputazione del nostro Paese nell’analisi sul tema delle tangenti.
Abbiamo visto che quest’anno dei 28 paesi europei presenti nella classifica la Bulgaria è ultima in classifica, poi ci siamo noi,  mentre prima in classifica la Danimarca.
 Per quanto riguarda il nostro Paese c’è un’inversione di tendenza rispetto al passato.
Comunque i pareri su questo dato inerente il nostro Paese arrivano direttamente da uomini d’affari ed esperti di settore. Questo dato c’è da dire che era comunque atteso da esperti e addetti ai lavori e dal Corruption Perceptions Index del 2015 stilato dall’organizzazione non governativa Transparency International risulta che questi dati sulla corruzione si basano anche sul sentimento di percezione delle persone.
Secondo il rapporto del 2015 l’Italia con i suoi 44 punti – rispetto ai 43 del 2014 – si ritrova al 61esimo posto tra le 168 nazioni censite sul piano internazionale e come detto penultima nella lista dei 28 membri dell’Unione Europea.
Nei dati non c’è solo la gente comune e la loro percezione, ma questi riflettono anche l’opinione degli investitori esteri potenziali nel nostro Paese e la loro opinione nel mercato conta purtroppo più di quella della maggioranza delle persone. E da queste opinione emerge che negli ultimi 2 anni l’Italia è rimasta ferma al palo ed è stata anche sorpassata da paesi considerati molto corrotti come Grecia e Romania.
Questo ci conferma anche che gli sforzi fatti dapprima dalla legge Severino susseguiti dall’impegno messo in campo dall’Autorità nazionale anti corruzione guidata da Raffaele Cantone purtroppo non hanno scalfito quello che a questo punto si può considerare un malcostume che dal basso – quindi anche da comportamenti abituali diffusi tra la gente comune – arriva fino ad alte sfere e trova lì la sua massima espansione. Quindi la strada da percorrere per rimettere nei giusti binari il nostro Paese su questo tema è in salita e lunga. D’altra parte anche le parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella analizzano questo fenomeno: C’è una corruzione che vediamo diffusa come se ci fosse una sorta di concezione rapinatoria della vita. A conferma del fatto che il costume in tal senso è estremamente diffuso anche se le colpe di chi sta in basso e magari accetta di essere corrotto per vivere sono estremamente differenti da quelle di coloro che corrompono e accettano la corruzione per accumulare grandi ricchezze a scapito di molti.
L'annuale classifica conferma la pessima reputazione del nostro Paese sul fronte delle tangenti. Tra i 28 membri dell'Unione fa peggio solo la Bulgaria, mentre ci battono in trasparenza anche Romania e Grecia. Vince la Danimarca, ultime Somalia e Corea del Nord.
Secondo uomini d’affari ed esperti di settore l’Italia continua a essere uno dei paesi più corrotti d’Europa. Il dato emerge, per la verità senza grandi sorprese, dal Corruption Perceptions Index 2015 di Transparency International, l’organizzazione non governativa che ogni anno stila la classifica mondiale sulla corruzione pubblica percepita . Secondo il nuovo rapporto l’Italia, con i suoi 44 punti (lo scorso anno erano 43), si colloca al 61esimo posto tra le 168 nazioni censite, penultima nella lista dei 28 membri dell’Unione Europea, dove si piazzano meglio del belpaese sia Grecia che Romania (entrambe con 46 punti), mentre fa peggio la sola Bulgaria (41 punti).
Secondo i dati dell’indice 2015, che riflettono l’opinione anche di potenziali investitori esteri, negli ultimi 24 mesi l’Italia è rimasta ferma al palo, sorpassata – tra i paesi dell’Ue – persino da quelli considerati molto corrotti come Grecia e Romania. Segno che, nonostante gli interventi normativi degli ultimi anni (la legge Severino in primis) e l’impegno profuso dall’Autorità nazionale anticorruzione guidata da Raffaele Cantone, la nostra cattiva reputazione continua a godere nel mondo di ottima salute.
Il presidente di Transparency Italia, Virginio Carnevali, nota però dei segnali di cambiamento: “Constatiamo con piacere che finalmente si è avuta un’inversione di tendenza, seppur minima, rispetto al passato, che ci fa sperare in un ulteriore miglioramento per i prossimi anni” è il suo commento ai risultati. “Come dimostra la cronaca, la strada è ancora molto lunga e in salita, ma con la perseveranza i risultati si possono raggiungere. Una società civile più unita su obiettivi condivisi e aventi come focus il bene della res publica porta un contributo fondamentale al raggiungimento di traguardi importanti”.
L’Indice di Transparency misura la corruzione percepita nel settore pubblico aggregando dati di 12 fonti diverse (almeno tre per ogni nazione) e per l’Italia, tra gli altri, utilizza i sondaggi realizzati dal World Economic Forum e dal World Justice Project. A essere intervistati non sono i cittadini, ma uomini del mondo dell’economia ed esperti nazionali. “La corruzione generalmente prevede attività illegali intenzionalmente occultate, che vengono scoperte sono grazie a scandali, inchieste e processi” spiega Transparency in una nota: “Non esiste un modo affidabile per calcolare i livelli assoluti di corruzione di Paesi o territori sulla base di dati empirici oggettivi”. Comparare il numero di tangenti scoperte o il numero di processi non sempre è una soluzione efficace “perché mostra solo quanto procure, tribunali o media sono efficaci nell’investigare e portare allo scoperto la corruzione”. Perciò, per Transparency, misurare la percezione resta il metodo più attendibile per comparare i livelli di corruzione tra diverse nazioni.
I dati di quest’anno indicano che l’Italia, che ha fermato la sua discesa rovinosa in classifica agguantando un punto in più e scalando qualche posizione (da 69 a 61), continua comunque a non avere neppure la sufficienza in trasparenza e a mantenere una posizione da ultima della classe nel vecchio continente, dove i membri dell’Ue e i paesi dell’Europa dell’ovest presentano, nel complesso, le migliori pagelle del mondo, con un punteggio medio di 65 su 100. Ben peggiore la situazione altrove dove, secondo l’indice, più di sei miliardi di persone abitano nazioni con seri problemi di corruzione.
A trainare la classifica dei virtuosi, come ogni anno, i paesi del nord Europa, Danimarca in testa con i suoi 91 punti, seguita dalla Finlandia con 90 punti. Mentre a chiuderla, anche qui senza troppe sorprese, con 8 punti a testa, si trovano nuovamente Somalia e Corea del Nord.
Promossi mediamente anche i paesi del G20, tra i quali quasi la metà supera abbondantemente la soglia della sufficienza. A partire dal Canada (83 punti) a seguire poi Germania (81), Regno Unito (81), Australia (79), Usa (76), Giappone (75), Francia (70), Corea del Sud (56) e Arabia Suadita (52). Con l’Italia si passa sotto quota 50 punti e seguono i paesi con performance peggiori, a partire da Sud Africa (44), Turchia (42), Brasile (38) e India (38), per finire poi con Cina (37), Indonesia (36), Messico (35), Argentina (32) e Russia (29).
“Per compiere un salto di qualità importante occorre un ruolo più forte della società civile” è il commento del presidente di Unioncamere, Ivan Lo Bello. “La battaglia per legalità e trasparenza è resa meno difficile dalla rivoluzione digitale in atto e anche su questo fronte occorre insistere con decisione per fare della macchina pubblica un attore trasparente, imparziale e rispettoso delle regole del mercato”. Questa la ricetta. Per valutare i risultati occorre aspettare la pagella del prossimo anno.
                                   LA  EVASIONE  FISCALE  IN  ITALIA
Secondo il rapporto 2016 dell’istituto di ricerca di Eurispes e in base alle stime del report, l ’Italia avrebbe un PIL sommerso pari a 540 miliardi. Una cifra enorme se si tiene conto che il PIL ufficiale ammonta invece a 1.500 miliardi di euro. Da sottolineare che ai 540 miliardi ne vanno aggiunti ulteriori 200 che non sono stati inclusi in quanto derivanti dall’economia criminale.
Pertanto , 740 miliardi in tutto ,  nell’ambito dei quali, considerando un livello di tassazione del 50%, l’evasione fiscale (da sola) vale 270 miliardi. Comunque , vi è da dire che in questi ultimi tempi  il sistema di contrasto all’evasione fiscale sta facendo dei progressi.
Prima di procedere occorre fare una premessa: sul sommerso e sull’evasione fiscale non ci sono, perché non ci possono essere, dati certi, ma solo stime. Ognuno dunque fa i suoi conti in base a vari parametri e tira le sue conclusioni. Di seguito vi presentiamo alcuni dati che infatti presentano stime differenti:
·         Secondo il Rapporto sull’evasione fiscale 2014 pubblicato ministero dell’Economia basato su dati Istat, l’entità del sommerso nazionale nel 2008 oscillava tra i 255 e i 275 miliardi di euro, cifre che in percentuali rappresentano il 16,3% e il 17,5% del PIL.
·         Peggiori i dati di Bankitalia secondo cui nel quadriennio 2005-2008 il sommerso ammontava al 16,5%, una percentuale cui occorre sommare un 10,9% derivante dall’economia illegale (totale 27,4%). Parlando del solo 2008 invece, i tecnici della banca d’Italia registravano un’economia non osservata pari al  31,1% (18,5% relativo di economia sommersa e 12,6% legato alle attività criminali).
·         I dati della Corte dei Conti (periodo di riferimento 2010-2013) parlano più nel dettaglio di 34-38 di pagamenti occultati ogni 100 euro fatturati o dichiarati.
·         Gli ultimi dati pubblicati appartengono a Confindustria che stima un’evasione fiscale e contributiva a 122,2 miliardi di euro nel 2015, pari al 7,5% del PIL. Al fisco vengono sottratti quasi 40 miliardi di IVA, 23,4 di IRPEF, 5,2 di IRES, 3,0 di IRAP, 16,3 di altre imposte indirette, cui si aggiungo 34,4 di contributi previdenziali. Cifre che non corrispondono ai calcoli del nostro Governo che nel DEF parla di 91,4 miliardi di media nel periodo 2007-2013.
Nel 2013, secondo gli ultimi “dati ufficiali” pubblicati, su un Prodotto Interno Lordo di 1.600 miliardi, l’evasione ammontava a 180 miliardi (10%). Oggi, secondo Eurispes, la cifra sarebbe salita di ulteriori 90 miliardi su un PIL che invece è sceso a 1.500 miliardi e dunque saremmo saliti al 18%.
          Mafia, ‘ndrangheta, camorra: la mappa dei clan
             Mafia, ‘ndrangheta, camorra: la nuova mappa dei clan. L’ultima relazione semestrale della Dia, organo investigativo del Ministero dell’Interno, indica i loro nomi e le loro zone di influenza.
La Dia fa sapere nel secondo semestre 2013 alcune collaborazioni tra famiglie, anche di diversi mandamenti, hanno smussato qualche contrasto e vecchio rancore. Mentre la necessità di proiettarsi fuori regione ha indotto l’intera organizzazione a concorrere con altri gruppi criminali di ‘ndrangheta, camorra o Sacra Corona Unita per trovare appoggi.
Il traffico di droga si conferma business in crescita, anche in considerazione dei maggiori rischi legati all’attività estorsiva, sempre molto praticata in provincia ma non più agevole, considerata la maggiore propensione degli imprenditori a denunciare le vessazioni subite.
Dal traffico di droga agli affari sugli appalti. Dalle estorsioni all'usura. Nel nostro Paese è ancora fitta la rete di famiglie e cosche dedite alle peggiori attività illecite. Soprattutto al Sud. Ecco l'elenco dei gruppi criminali attivi in Sicilia, Calabria, Campania, Puglia e Basilicata. Comune per comune
Traffico illecito di armi e droga, estorsioni ad imprenditori e commercianti, riciclaggio e reinvestimento di denaro sporco, affari su piccoli e grandi appalti pubblici. In diverse aree del nostro Paese la criminalità organizzata continua ad esercitare un controllo più o meno stringente del territorio, in particolare nelle regioni meridionali, storicamente più colpite dal fenomeno. L’ultimo (ennesimo) allarme arriva dalla relazione semestrale del ministero dell’Interno sull’attività svolta e i risultati conseguiti dalla Dia, Direzione Investigativa Antimafia (organo investigativo del Viminale). Il rapporto, diffuso la scorsa settimana e relativo al primo semestre 2014, ci consegna ancora una volta una mappa dettagliata delle centinaia di clan e famiglie di mafia, ‘ndrangheta e camorra che operano in Sicilia, Calabria, Campania, Puglia e Basilicata, e che spesso estendono fino al Nord il loro raggio di azione. Ecco quali, provincia per provincia.


                                                        LA   MAFIA 
 PALERMO – Nella provincia di Palermo – descrive la relazione del ministero dell’Interno – Cosa Nostra è impegnata in una costante opera di consolidamento della sua struttura, sia sotto il profilo militare che economico, autofinanziandosi soprattutto attraverso la gestione di traffici illeciti, il riciclaggio e il reinvestimento di denaro sporco. Sarebbe, quella attuale, una fase di riorganizzazione legata all’arresto di alcuni vecchi capi mandamento e capi famiglia e derivante dal fatto che non tutti i nuovi reggenti dei gruppi criminali sembrano possedere l’autorevolezza necessaria. Stando a quanto riporta la Dia, si registrano dunque nell’area difficoltà a compattare le nuove leve e ad attuare le strategie criminali, spesso rimesse in discussione dall’arresto o dalla scarcerazione di alcuni boss. Il territorio provinciale risulta ora diviso in 14 mandamenti, 8 dei quali in città,  e 79 famiglie, di cui 34 in città.
 Tra le attività principali della mafia palermitana vengono segnalate, oltre al riciclaggio, la frode nella distribuzione di carburanti e il traffico e la produzione di stupefacenti. In particolare, il narcotraffico risulta essere una delle maggiori fonti di finanziamento. L’approvvigionamento verrebbe garantito dalla joint venture con associazioni criminali radicate in Calabria e in Campania e dirette referenti dei fornitori. Non sono mancati, infine, episodi di contiguità tra mafia e politica che hanno determinato lo scioglimento di alcuni consigli comunali.
 AGRIGENTO – Cosa Nostra agrigentina, articolata su 7 mandamenti, ha confermato un ruolo di rilievo nei confronti di altre consorterie criminali nella provincia, riuscendo anche a mantenere un ruolo di rispetto nella gerarchia mafiosa della regione. Come a Palermo, però, anche ad Agrigento continua una ricerca di nuovi equilibri, che scaturisce dagli arresti degli anni scorsi e dalle scarcerazioni di vecchi capi. L’organizzazione è comunque verticistica e unitaria, ed interessata prevalentemente al traffico di stupefacenti ed all’acquisizione di denaro pubblico, con un forte predominio territoriale esercitato attraverso l’attività estorsiva. Il pizzo viene imposto ad imprenditori attivi in svariati settori. I proventi vengono poi reinvestiti, attraverso insospettabili prestanome, in attività apparentemente legali, con lo scopo di sottrarre gli illeciti guadagni all’azione di sequestro e confisca da parte dello Stato. Si registrano anche intimidazioni nei confronti di amministratori ed esponenti politici, ovvia dimostrazione un forte e costante interesse a condizionare le decisioni di carattere politico-amministrativo.
 TRAPANI – La provincia di Trapani rimane feudo del super ricercato Matteo Messina Denaro, considerato esponente di spicco dell’intera cupola di Cosa Nostra. Nell’area nel primo semestre 2014 – dice il rapporto del Viminale – non sono emersi mutamenti dell’organizzazione e della struttura mafiosa, che resta articolata in 4 mandamenti e 17 famiglie. La Dia registra un’operatività di sodalizi mafiosi della provincia caratterizzati da basso profilo di esposizione, e interessati a perseguire una sorta di strategia dell’inabissamento. Messina Denaro, capo del mandamento di Castelvetrano può vantare una fitta rete di protezione e favoreggiamento, anche attraverso interposizioni nella gestione di beni e affari. Gli interessi, invece, sembrano focalizzati sul controllo delle attività imprenditoriali e degli appalti pubblici, nel racket delle estorsioni, con relativi atti di danneggiamento, nel traffico di droga e in attività di corruzione per la penetrazione nella pubblica amministrazione.
 CALTANISSETTA – A Caltanissetta e provincia Cosa Nostra appare articolata in 4 mandamenti e risulta interessata soprattutto alle estorsione, all’infiltrazione negli appalti pubblici (con pressioni esercitate sugli amministratori) ed allo spaccio e traffico di droga esercitato non necessariamente attraverso canali di rifornimento e personaggi propri, ma anche provenienti da altri territori. Nell’area, a differenza della maggior parte delle province, si registra una presenza significativa della Stidda, organizzazione mafiosa ben distinta da Cosa Nostra, con influenza in particolare dei comprensori di Gela e Niscemi. E si conferma, inoltre, la propensione della Stidda all’accordo sistematico con le famiglie di Cosa Nostra attive nello stesso territorio, per un’equa ripartizione dei proventi delle attività illecite.
 ENNA – Accade qualcosa di diverso, invece, ad Enna, nella cui provincia, a causa dell’assenza di una guida mafiosa costante e univoca, si vivono fasi alterne di prevalenza della componente nissena o di quella etnea. La Dia, ad esempio, nel periodo tra gennaio e giugno 2014 ha rilevato, nel comune di Catenanuova, l’operatività, al fianco delle storiche famiglie di Cosa Nostra ennesi (ora prive di personaggi dotati di carisma criminale) di un gruppo di diretta emanazione del clan Cappello di Catania. Per quanto concerne le attività illecite svolte, invece, anche quest’area si mostra in linea con il trend della regione, con il traffico di droga diventato negli ultimi due anni la fonte principale di reddito.
 CATANIA – A Catania i rapporti di forza tra sodalizi criminali sembrano non essere mutati. La Dia riferisce di una convivenza pacifica tra le famiglie e di equilibrio tra due schieramenti egemoni. Come a Trapani e in altre province, anche in quest’area i gruppi mafiosi sono bene attenti a mantenere ultimamente un basso profilo, privilegiando l’obiettivo a farsi impresa. Accanto alle tradizionali attività illecite, come estorsioni, usura e traffico di stupefacenti, l’organizzazione investe e ricicla, anche nei circuiti finanziari. Per quanto riguarda la commercializzazione della droga, essa risulta in mano prevalentemente al clan Cappello, che contende una cospicua fetta di guadagni al clan rivale Santapaola. A Catania il fenomeno dello spaccio sembra aver raggiunto un’elevatissima pervasività con interi isolati, se non quartieri cittadini, che vivono di questo tipo di attività illecita. Vista la perdurante crisi economica, i clan non hanno particolari difficoltà ad arruolare nuova giovane manovalanza, attratta da facili guadagni. Ovviamente nemmeno a Catania viene trascurato l’affare dell’infiltrazione nella pubblica amministrazione e della gestione di denaro pubblico attraverso l’aggiudicazione di appalti, subappalti, forniture e servizi.
 SIRACUSA – Nella provincia di Siracusa l’organizzazione mafiosa continua ad essere asservita alle logiche e alle strategie di Cosa Nostra catanese. Anche qui, come ad Enna, mancano personalità carismatiche in grado di assumere ruoli di comando. Si registra una situazione di convivenza apparentemente pacifica tra i gruppi criminali attivi nell’area. Principali attività sono quella estorsiva e il traffico di stupefacenti, che sembra comunque essere limitato all’approvvigionamento dalla piazza catanese.
 RAGUSA – Gli influssi dei sodalizi catanesi (e di quelli nisseni) si fanno sentire anche nel territorio ragusano, specialmente nel versante occidentale, a Vittoria, Scicli, Comiso. Ancora una volta si registra, come a Caltanissetta, il peso della Stidda, alla quale è affiliato il clan Dominante-Carbonaro. È legato a Cosa Nostra, invece, il clan Piscopo. I capi mafiosi sembrano comunque dotati di scarso spessore criminale, ma riescono tuttavia, tra una detenzione e l’altra, a compattare intorno a sè estemporanei sodalizi per la gestione degli affari illeciti.
 MESSINA – Nella provincia di Messina lo scenario mafioso è notoriamente caratterizzato dalla presenza di gruppi delinquenziali privi dello spessore dei sodalizi palermitani o catanesi. Si registra però l’influenza della ‘ndrangheta, in ragione della vicinanza geografica alla Calabria.
 A dominare la fascia tirrenica è il clan dei Barcellonesi, molto radicato e in grado di esercitare un forte condizionamento. Il sodalizio è caratterizzato da una solida organizzazione con ripartizione delle competenze tra famiglie e metodi operativi omologhi a quelli di Cosa Nostra palermitana, con la quale rimane in rapporti nella gestione degli affari. Oltre alle consuete attività estorsiva, di traffico di stupefacenti, e di gestione degli appalti, nel primo semestre 2014 la Dia ha rilevato nella provincia un nuovo interesse per lo sfruttamento della prostituzione. Sono comunque attivi nel territorio anche soggetti che operano in autonomia avvalendosi dei metodi mafiosi.

                           
                                LA   N' DRANGHETA
 REGGIO CALABRIA – Per quanto concerne la Calabria - spiega la relazione del ministero – la ‘ndrangheta ha dimostrato nel primo semestre 2014 una crescente capacità di infiltrarsi nella sfera politico-amministrativa degli enti locali. La regione detiene un primato del numero di provvedimenti di scioglimento di comuni per infiltrazione mafiosa, e le ‘ndrine hanno dimostrato capacità di penetrare nelle realtà politico-amministrative anche lontano dal territorio di origine (lo testimoniano le note recenti inchieste sulla mafia al Nord). A Reggio Calabria la dislocazione delle cosche è caratterizzata dall’esistenza di un organismo direttivo, denominato Provincia, e 3 mandamenti a competenza areale: il mandamento Tirrenico, il mandamento Centro e il mandamento Ionico. Per quanto riguarda il mandamento Tirrenico, il porto di Gioia Tauro si conferma luogo di transito della cocaina proveniente dal Sud America. Sulla base dei dati in possesso della Dia, i sequestri operati nello scalo portuale hanno permesso di intercettare 980 kg di cocaina e circa 10 tonnellate di tabacchi di contrabbando. Nell’area di Gioia Tauro si segnala l’influenza della cosca Molè, un tempo alleata con i Piromalli. Mentre nel comprensorio di Rosarno e San Ferdinando è attiva la cosca Pesce-Bellocco.
 Sulla città di Reggio Calabria, nel mandamento Centro, si segnala ancora la posizione di supremazia delle storiche cosche cittadine De Stefano, Condello, Libri e Tegano. A Sud del capoluogo opera, invece, la cosca Ficara-Latella. Nei rioni Modena e Ciccarello si registra l’attività del sodalizio Borghetto-Caridi-Zindato e Rosmini. Nel quartiere di Santa Caterina, infine, è attiva la cosca Lo Giudice.
 Relativamente al mandamento Ionico, la Dia segnala l’attività, nel comune di Monasterace, ed in quelli limitrofi di Stilo, Riace, Caulonia e Camini, della cosca Ruga, Metastasio, Leuzzi, legata alla cosca Gallace, attiva a Guardavalle, in provincia di Catanzaro.
 Nel comune di Caulonia opera la cosca Vallelonga. A Gioiosa Jonica è attiva la cosca Scali-Urbino, federata con i Costa-Curciarello di Siderno.
 CATANZARO – Nessuna novità per quanto riguarda la mappatura della Dia relativa alla provincia di Catanzaro. Unica novità di rilievo del primo semestre 2014 sarebbero – dice il rapporto del Viminale -  due operazioni che hanno disarticolato le cosche Giampà e Torcasio.
COSENZA – Sono sostanzialmente immutate rispetto al secondo semestre 2013 anche le zone di influenza dei gruppi criminali ‘ndranghetisti della provincia di Cosenza.
CROTONE – Per quanto riguarda l’area di Crotone la Dia sottolinea il maggior peso della famiglia Grande Aracri, la stessa dall’operazione della scorsa settimana che ha condotto ad arresti di politici e imprenditori in Emilia Romagna. In particolare la cosca avrebbe assunto il controllo di tutte le attività illecite nella parte più a Nord della regione.
 VIBO VALENTIA – Nella provincia di Vibo Valentia, infine, conserva un ruolo egemone la cosca Mancuso di Limbadi, nonostante negli ultimi anni sia stata colpita da diverse attività investigative. Relativamente alle conflittualità tra sodalizi non sembrano essere sopiti i contrasti tra i cosiddetti piscopiani della frazione Piscopo e i Patania di Stefanaconi, sostenuti dai Mancuso.


                                LA   CAMORRA 
 NAPOLI – Anche in Campania vengono sostanzialmente confermati assetti criminali consolidati e di ricerca di nuovi equilibri tra clan colpiti da operazioni di polizia. Ma – come sottolinea il ministro dell’Interno nella relazione semestrale – novità potrebbero arrivare dall’area casertana. Il clan dei Casalesi, infatti, sembra in difficoltà operativa alla luce della decisione del super boss Antonio Iovine di collaborare con la giustizia. Il pentimento del capo clan potrebbe avere ripercussioni sugli equilibri del sodalizio. Per quanto concerne invece la redditività delle attività illecite, per la criminalità organizzata campana quella più vantaggiosa è ancora rappresentata dal traffico di stupefacenti. Si tratta del settore nel quale vengono operati i maggiori investimenti per gli ingentissimi guadagni che ne derivano. Va ricordato, in tal senso, quanto accaduto nell’area a Nord di Napoli, centro nevralgico per l’approvvigionamento della droga, dove la fine del predominio assoluto del clan Di Lauro negli anni scorsi ha generato scontri tra gli altri gruppi che ne hanno in parte occupato lo spazio.
 Nella zona centrale del capoluogo campano rimane fitta la rete di clan camorristici operanti. Nel rione Forcella, a causa di tensioni tra il clan Mazzarella ed un gruppo discendente dello storico clan Giuliano, intenzionato ad assumere il controllo dello spaccio di stupefacenti, si vive una situazione di instabilità. Del gruppo criminale in ascesa farebbero parte giovani delle famiglie Stolder-Ferraiuolo-Brunetti-Sibillo, che potrebbero contare sull’appoggio del clan Rinaldi di San Giovanni a Teduccio, che è attivo nella zona orientale della città ma sta estendendo la sua influenza anche nel quartiere Mercato, alle Case Nuove, zona storica del gruppo Caldarelli, a sua volta satellite del clan Mazzarella. Nei quartieri Vasto e Arenaccia, nella zona Ferrovia e a Poggioreale, intanto, continua l’egemonia incontrastata del clan Contini, dotato di ottima capacità militare e politica di alleanze, come quella con il gruppo Mallardo di Giugliano in Campania, i Licciardi di Secondigliano e i Bidognetti della provincia di Caserta. I Contini sembrano aver trovato un equilibrio con lo storico rivale clan Mazzarella. Nei quartieri Spagnoli, invece, sono attivi i clan Mariano e Ricci, quest’ultimo legato al gruppo D’Amico, operante nella zona orientale della città, e due clan di recente formazione, Esposito e Saltalamacchia. La Dia segnala che alcune sparatorie e intimidazioni sono sintomatici di frizioni tra i gruppi Elia del Pallonetto a Santa Lucia, Lepre del Cavone e Mariano, da una parte, ed Esposito e Saltalamacchia dall’altra. Nella zona centrale di Napoli, inoltre, si segnala il ritorno di esponenti delle famiglie Tolomelli e Vastarella, storicamente legate ai Licciardi e feroci antagoniste del clan Misso. Famiglie che hanno l’ambizione di riprendere il controllo di parte del quartiere Sanità, cercando appoggi con i Contini. Il quartiere Sanità, infatti, dopo la disarticolazione del clan Misso, è diventato teatro di accesa conflittualità per la perdita dell’egemonia da parte degli storici gruppi camorristici. Ora si registra l’attività del clan Lo Russo del quartiere Miano e del gruppo Savarese-Sequino, in cerca di alleati e intenzionato ad accordi con le nuove generazioni della famiglia Giuliano. A Poggioreale, intanto, la dissoluzione del clan Sarno ha condotto ad uno scontro tra un gruppo di ex affiliati, ora legati al sodalizio criminale Casella, ed al clan Cuccaro di Barra, federato con la famiglia De Micco. A San Ferdinando, invece, nella zona Chiaia, è attivo il clan Piccirillo, legato al gruppo Licciardi e Strazzullo, e presente anche nella zona Posillipo, considerata a sua volta territorio franco per il riciclaggio di clan della zona nord orientale del capoluogo e di Napoli centro, in particolare dei gruppi Licciardi, Mazzarella e Calone. Al Pallonetto a Santa Lucia, infine, è in corso una lotta per il predominio tra famiglia Ricci dei Quartieri Spagnoli e gli Elia di Santa Lucia.
 Per quanto riguarda la zona settentrionale di Napoli, nei quartieri Vomero ed Arenella domina il clan Cimmino, controllando sia la zona Arenella-Conte della Cerra sia la zona Rione Alto. Ma si registra contemporaneamente anche la presenza dei Polverino di Marano di Napoli, impegnati nel riciclaggio in attività commerciali. A Secondigliano e Scampia, Rione Berlingieri, Miano, Piscinola e San Pietro a Patierno, gli equilibri non sono stabili. Come afferma la relazione del ministero dell’Interno, la geomorfologia appare fluida per la rapidità con cui si creano rapporti di alleanza e forte antagonismo. Nei suddetti quartieri l’attività di spaccio è molto intensa e redditizia. Si segnala, dunque, la presenza in tutta l’area dei gruppi camorristici Amato-Pagano, Di Lauro, Vanella-Grassi, Bocchetti, Licciardi, Lo Russo e Abete-Abbinante-Aprea-Notturno.
L’area orientale della città comprende i quartieri San Giovanni a Teduccio, Ponticelli e Barra. A San Giovanni a Teduccio si contrappongono lo storico clan Mazzarella, che conta sull’appoggio delle famiglie Formicola-Silenzio e D’Amico ed il cartello composto dai gruppi Reale, Rinaldi e Altamura. A Barra, invece, e nel rione Lotto Zero di Ponticelli, dopo anni di egemonia del sodalizio Cuccaro-Aprea è in atto un tentativo di conquista di spazio da parte del gruppo Amodio-Abrunzo, formato da pregiudicati usciti dal suddetto clan e sostenuti dagli Abete-Notturno-Aprea e De Micco, già legati ai Cuccaro. A Ponticelli è attivo il gruppo De Micco, forte di una ampia disponibilità di armi e diventato referente per la fornitura di stupefacenti di una gran parte dell’area orientale. Ai De Micco si contrapporrebbe il clan D’Amico, formato da esponenti del dissolto clan Sarno.
Per quanto concerne, poi, l’area occidentale di Napoli si rileva un’elevata frammentazione delinquenziale che ha determinato faide provocate dalla necessità di evitare sconfinamenti da parte di gruppi rivali. Come riporta il rapporto del Viminale, A Soccavo opera la famiglia Grimaldi, legata ad esponenti della malavita di Pianura e del Rione Traiano. L’antagonista sarebbe il gruppo Vigilia, formato da alcuni fuoriusciti dal clan. A Fuorigrotta, intanto, opera il gruppo Zazo, al quale si sarebbero aggiunti i pochi elementi liberi del clan Bianco, non più attivo. Il gruppo Zazo è impegnato nel traffico di droga e nella contraffazione e risulta legato alla famiglia Mazzarella. Nel Rione Traiano, invece, altra zona dove è intenso lo spaccio di droga, si registra l’egemonia del clan Puccinelli, favorito dall’assenza dalla scena dei suoi antagonisti, ovvero i capi del contrapposto gruppo Leone-Cutolo, detenuti in esecuzione di pesanti condanne. A Pianura sembra ridimensionato il clan Lago, che ha ceduto spazio al gruppo Marfella. A Bagnoli, Agnano e su parte della zona di Cavalleggeri d’Aosta permane, infine, la presenza del clan D’Ausilio, anche se ridimensionato da arresti e collaborazioni. Nella stessa area ha comunque acquistato spazio il gruppo scissionista Esposito, originario di Secondigliano e legato alla famiglia Licciardi.
Nel versante occidentale della provincia si registra l’egemonia dei Polverino a Quarto. Mentre a Bacoli e Monte di Procida opera il clan Pariante, dedito allo spaccio e legato agli Amato-Pagano di Secondigliano. Per quanto concerne invece la zona settentrionale della provincia, a Casavatore è attivo il gruppo Vanella-Grassi e il clan Ferone. A Qualiano e Villaricca, invece, gruppi locali sono interessati all’acquisizione di appalti pubblici, alle estorsioni, al riciclaggio e al traffico di droga mediante importazione dall’estero di ingenti quantitativi, ma d’intesa con altri clan. A Marano di Napoli persiste l’egemonia del clan Polverino, presente anche a Quarto e Villaricca e caratterizzato da una forte vocazione imprenditoriale, che si manifesta, ad esempio, con l’interesse nell’edilizia residenziale e nelle attività turistico-alberghiere. Il clan Mallardo, alleato con i Bidognetti e i Contini, opera incontrastato a Giugliano in Campania. Afragola è invece il comune di origine del clan Moccia, egemone incontrastato per la gestione e il controllo di tutte le attività illecite anche a Casoria, Caivano, Arzano, Cardito, Crispano, Frattamaggiore e Frattaminore, e proiettato anche in altre regioni e all’estero. Ad Acerra e dintorni si ritiene disarticolato il clan Crimaldi, così come i clan De Sena e Di Falco-Di Fiore. Pertanto, nella vasta area tra i comuni di Casalnuovo, San Felice a Cancello e Santa Maria a Vico opererebbero gruppi criminali non aventi connotazione tipica dei clan e dediti prevalentemente ad estorsioni, spaccio e rapine.
 Nell’area vesuviana e nolana si registra il controllo delle attività illecite soprattutto da parte dei clan Cava, originario di Quindici, nell’Avellinese, dei Fabbrocino di San Giuseppe Vesuviano e dei Moccia di Afragola, che hanno assorbito altre compagini criminali locali facendole diventare proprie strutture satellite. Si conferma la forte vocazione imprenditoriale del clan Fabbrocino, le cui ingenti disponibilità economiche avrebbero contribuito al rafforzamento del vincolo di omertà dei suoi consociati. Ma non solo. la relazione del ministero descrive che le capacità imprenditoriali di molti affiliati hanno consentito al gruppo camorristico di penetrare nel settore dell’abbigliamento e del commercio di alimenti in alcune regioni del Centro e del Nord del Paese, come Lombardia, Emilia Romagna, Umbria e Marche. Intanto, a Pomigliano d’Arco, Castello di Cisterna, Brusciano (dove opera il clan Ianuale, presente anche a Mariglianella), Marigliano, Pollena Trocchia, San Sebastiano al Vesuvio, Somma Vesuviana e Sant’Anastasia opera il clan Castaldo-Anastasio. Nella stessa zona sono però attivi anche pregiudicati di riferimento del clan Mazzarella, insediatisi nella zona di Marigliano. A Somma Vesuviana, intanto, si segnala l’infiltrazione dei clan Cuccaro e Rinaldi di Barra attraverso pregiudicati locali.
 Infine, la fascia costiera a Sud di Napoli, la provincia meridionale. A Portici e San Sebastiano al Vesuvio il clan Vollaro detiene l’egemonia assoluta delle estorsioni, del traffico di droga, del lotto clandestino e dell’usura. Ad Ercolano, invece, si registra l’attività, in contrapposizione, degli Ascione-Papale e dei Birra-Iacomino. A San Giorgio a Cremano opera il clan Abate, con proiezioni in Emilia Romagna. A Torre del Greco i clan Falanga e Di Gioia. A Torre Annunziata sono attivi i Gionta. Il sodalizio Gallo-Limelli Vangone è presente sia a Torre Annunziata che nei comuni di Boscoreale, Boscotrecase e Trecase. A Castellammare e nei comuni vicini, infine, agiscono i clan D’Alessandro e Cesarano.
 CASERTA – Come già detto, il clan dei Casalesi, che domina gli affari illeciti nella provincia di Caserta, deve fare i conti con la collaborazione con la giustizia del super boss Antonio Iovine. Il gruppo criminale sta quindi vivendo una difficile fase di transizione già affrontata qualche anno addietro, all’indomani della cattura dei un altro esponente al vertice del sodalizio camorristico, Michele Zagaria, in manette nel 2011. Tuttavia, non va dimenticato che i Casalesi sono già riusciti in passato a rigenerarsi reclutando nuove leve da affiancare a vecchi sodali, nonostante siano stati oggetto negli anni di un’efficace attività di contrasto. Dunque, il clan casertano, sembra in questa fase intenzionato a rafforzare la propria presenza nelle aree di influenza, invece che estendersi in altre zone della provincia, zone in cui però si sta rafforzando la forza criminale delle organizzazioni non federate nel cartello.
 La fazione Bidognetti a quanto pare ha ripreso a compiere estorsioni nei comuni di Parete, Teverola e Castel Volturno. Il gruppo Schiavone, invece, risulta sempre molto forte militarmente. Mentre il gruppo Zagaria viene considerato pericoloso soprattutto per la capacità di infiltrazione in diversi settori dell’economia, in particolare nella gestione dei servizi pubblici e negli appalti (come ha dimostrato la recente operazione sulle gare per i lavori in un ospedale casertano). Nella provincia, oltre ai gruppi federati ai Casalesi operano, nella zona di Marcianise, il clan Belforte e il gruppo Piccolo. I due clan mantengono con i Casalesi un rapporto di non belligeranza.
 SALERNO – Nella provincia di Salerno le organizzazioni camorristiche sembrano caratterizzate da una struttura di tipo orizzontale, con diversi centri decisionali e orientata prevalentemente al raggiungimento di obiettivi immediati di finanziamento e non medio-lunghi. Nell’area si registra una disaggregazione di vecchi cartelli criminali e la coagulazione di nuovi gruppi sia in città che lontano dal capoluogo. Nel dettaglio, a Bracigliano e a Mercato San Severino si registra la presenza del clan Graziano, originario di Quindici, in provincia di Avellino. A Salerno città si conferma la ripresa dell’egemonia del gruppo Panella-D’Agostino. Nell’agro nocerino-sarnese, in seguito alle azioni di contrasto degli anni scorsi, lo scenario delinquenziale appare in fase di assestamento. La gestione del traffico e dello spaccio di droga avviene attraverso alleanze con i gruppi dell’area napoletana, in particolare di Castellammare di Stabia e Torre Annunziata. A Pagani è attivo il sodalizio Fezza-D’Auria. A Nocera Inferiore e Nocera Superiore, invece, accanto allo storico clan Mariniello, si registra l’operosità di gruppi formati da giovani pregiudicati già legati a sodalizi del vicino comune di Pagani. È lo stesso che avviene ad Angri. A Cava de’ Tirreni, oltre a soggetti criminali già legati al clan Bisogno, operano pregiudicati che fanno riferimento al gruppo Celentano. Infine, nella parte Sud della provincia, nella Piana del Sele, risultano attivi gruppi criminali emergenti dediti sia alle estorsioni che al traffico di stupefacenti.
  BENEVENTO – Situazione stabile in provincia di Benevento, dove si conferma l’egemonia del gruppo camorristico Sperandeo, alleato con il clan Pagnozzi originario di San Martino Valle Caudina, in provincia di Avellino, ma presente anche a Montesarchio, Airola e paesi limitrofi. Il clan Pagnozzi agisce, tra l’altro, in sinergia con il gruppo Saturnino-Bisesto di Sant’Agata de’ Goti e con il sodalizio Iadanza-Panella attivo a Montesarchio Bonea, Bucciano, Castelpoto, Campoli del Monte Taburno, Tocco Caudio, Cautano e Forchia. Anche qui gli interessi variano dal traffico di droga all’usura, dalle estorsioni alle infiltrazioni nell’affare degli appalti pubblici.
AVELLINO – Nell’Avellinese viene confermato il predominio del clan Cava di Quindici, storico rivale dei Graziano, originario dello stesso comune. Al momento non vengono registrati episodi di conflittualità tra i due gruppi camorristici, ma la scarcerazione di qualche esponente di spicco dell’uno o dell’altro clan potrebbe rompere gli attuali equilibri. I Cava negli ultimi anni hanno approfittato dell’indebolimento del clan Russo di Nola, in provincia di Napoli, per proiettarsi in un nuovo territorio attraverso gruppi satellite come i clan Giugliano e Sangermano (quest’ultimo di San Paolo Belsito, Napoli). Nel comune di Avellino, intanto, sembra riorganizzarsi la famiglia Galderi, mentre sono ancora in carcere gli elementi di spicco del gruppo Genovese .
BARI – Per quanto concerne la Puglia, la Dia rileva che il fenomeno criminale, grazie all’azione di contrasto e alla collaborazione con la giustizia di alcuni affiliati alla Sacra Corona Unita, appare oggi non unitario, ma disgregato e disomogeneo. La regione, infatti è dunque caratterizzata dalla presenza di una pluralità di gruppi mafiosi, caratterizzati da continui mutamenti, spesso legati anche a delle faide. A Bari e in provincia, ad esempio, si registrano tensioni legate alla ridefinizione degli equilibri criminali e delle posizioni di vertice, che a volte degenerano in scontri cruenti. A restare operative sono soprattutto giovani e ambiziose leve, che risultano però nello stesso tempo anche inesperte e pericolose. I quartieri maggiormente interessati alle faide sono San Paolo (dove emergono contrasti tra il clan Montani-Telegrafo e il gruppo Mercande-Diomede), San Girolamo (teatro di uno scontro tra i Lorusso e i Campanale) e Libertà (dove hanno luogo contrasti interni al clan Mercante). Situazioni invece stazionarie si registrano nei quartieri di Carbonara e Ceglie del Campo (tra i clan Di Cosola e Strisciuglio), nel Borgo Antico (tra i Strisciuglio e i Capriati), nel quartiere Madonnella (dove si registra la presenza del clan Di Cosimo-Rafaschieri), e, infine, nel quartiere Japigia (dove operano i clan Parisi e Palermiti). Le attività illecite più diffuse sembrano essere quelle del traffico e dello spaccio di stupefacenti e delle estorsioni ai danni dei commercianti.
Per quanto concerne la provincia di Bari, poi, la Dia segnala la contrapposizione tra  clan Conte-Cassano e Cipriano nella città di Bitonto, il contrasto tra elementi del gruppo La Selva e del gruppo Panarelli a Conversano, e, in ultimo, l’egemonia del sodalizio Zonno a Toritto
 BARLETTA-ANDRIA-TRANI – La provincia di Barletta-Andria-Trani si caratterizza dalle altre per la diffusione di una specifica attività criminale: le rapine agli autotrasportatori, spesso realizzate su strade trafficate con tecniche paramilitari che possono prevedere anche il sequestro lampo dei conducenti dei tir. In ogni caso si segnala la presenza dei gruppi criminali Miccoli e Gallone-Carbone a Trinitapoli e del sodalizio Pistillo-Pesce ad Andria.
FOGGIA – A Foggia e provincia le organizzazioni criminali sono state ridimensionate da numerose inchieste giudiziarie e da severe condanne. Ma solo in parte sono stati fermati gli episodi di sangue, visto che la forte crisi economica favorisce la costituzione di un serbatoio nell’ambito della criminalità comune dal quale attingere manovalanza. Nel rapporto del Viminale si segnala la presenza del clan Sinesi-Francavilla in città, in contatto con la criminalità organizzata di San Severo.
LECCE - I gruppi criminali della provincia di Lecce erano un tempo legati alla Sacra Corona Unita. Ora, dopo un’efficace azione di contrasto attuata negli anni, i sodalizi non sono più organizzati in maniera verticistica, limitandosi ad operare in sinergia, preferendo un profilo basso, una strategia di inabissamento. Si segnala comunque la presenza in città del clan Rizzo, capeggiato da uno storico boss della S.C.U. leccese. Il gruppo è egemone soprattutto nel traffico di stupefacenti e nelle estorsioni. La maggiore influenza viene esercitata nel rione Castromediano. In provincia controlla invece i territori dei comuni di Cavallino, Lizanello, Melendugno, Merine, Vernole, Caprarica, Calimera e Martano.
BRINDISI – Sembra statico il contesto criminale anche nella provincia di Brindisi, che negli ultimi anni ha subito un incisivo contrasto investigativo grazie alla collaborazione con l’autorità giudiziaria della frangia brindisina e mesagnese della Sacra Corona Unita. Nessuno dei fatti di sangue verificatisi nell’area sembra comunque essere riconducibile a contrasti tra cosche. Anche qui le principali attività illecite sono rappresentate da traffico di stupefacenti ed estorsioni, quest’ultime esercitate perlopiù attraverso pretese di piccole somme di denaro. Ma si registrano anche usura e gestione degli apparecchi elettronici.
TARANTO – Gli assetti sono immutati anche a Taranto e provincia, dove i gruppi criminali ricavano i maggiori introiti dal traffico di droga, esercitato in sinergia con pregiudicati calabresi o baresi.
Molto diffusa l’attività estorsiva ai danni ai danni di imprenditori, commercianti e artigiani, spesso vittima di attentati dinamitardi o incendiari.
POTENZA E MATERA – In Basilicata viene rilevata la presenza residuale di gruppi criminali che, dopo essere stati disarticolati nel tempo dalle censure penali, non manifestano segnali palesi di vitalità. Questa situazione agevola l’attività di gruppi omologhi provenienti dalle regioni limitrofe. L’attività prevalente del traffico di droga riguarda soprattutto l’area tirrenica, confinante con Calabria e Campania. A Potenza si registra la presenza dei clan Cassotta, Di Muro, Martucci, Rivezzi, Martorano e Stefanutti. nella provincia di Matera, invece, si segnala nel primo semestre 2014 la presenza dei clan Scarcia, Mitidieri-Lopatriello e Zito-D’Elia.
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NOTA – La relazione del Ministero dell’Interno al Parlamento sull’operato e i risultati conseguiti dalla Dia nel primo semestre 2014 non riguarda solamente famiglie e clan della criminalità organizzata siciliana, calabrese, campana, pugliese e lucana, ma anche le organizzazioni criminali straniere che operano sul territorio nazionale (quella albanese, nordafricana, centrafricana, sub sahariana, cinese, sudamericana, romena, russa). Non mancano, inoltre, informazioni relative alle proiezioni extraregionali ed internazionali delle cosche italiane.




IL  RICICLAGGIO  CRIMINALE
Dopo la droga e le armi, il traffico illecito di opere d’arte è il terzo mercato più lucroso per le organizzazioni criminali .
Un mercato da circa 78 milioni di euro, che nel 2012 si è impennato del 39% rispetto al 2011. Dopo armi e droga il traffico illecito di opere d’arte è stimato come il terzo mercato criminale più lucroso, con profitti globali stimati intorno agli 8 miliardi di euro. «L’investimento o il reinvestimento di capitali illeciti in arte è uno dei più sicuri perché non perde valore ed è semplice da sottrarre all’aggressione patrimoniale Una catena criminale che va dal furto, alla falsificazione, fino all’opera dei cosiddetti “tombaroli”, cioè coloro che effettuano abusivamente scavi archeologici. Le opere rubate o falsificate vengono immesse sul mercato clandestino , anche utilizzando il web .
Un business per le organizzazioni come ’ndrangheta, cosa nostra e camorra, oltre ad almeno altre tre o quattro organizzazioni criminali nel mondo. Lo stesso ex procuratore nazionale Antimafia Pietro Grasso non ha esitato nel dire che il «traffico di opere d’arte è tra i principali guadagni delle mafie». Soldi sporchi a spasso per il globo, che transitano per gli immancabili paradisi fiscali e difficili da stanare .
 Investire in arte per le mafie, chiaramente ben consigliate da esperti del settore, è conveniente e sicuro: prima di tutto le pene previste nel caso in cui si venisse scoperte sono irrisorie per chi è abituato a ben altri pericoli del codice penale.
Riguardo a tutto ciò la legislazione è insufficiente» Pene troppo leggere, che non spaventano chi mercanteggia illegalmente opere d’arte, e una legislazione che rende non facile l’aggressione patrimoniale e le indagini. Secondo gli investigatori i limiti dell’attuale codice dei Beni Culturali non permettono di svolgere appieno le attività d’indagine, anche perché, spiegano, ormai quelli che operano nell’illegalità con le opere d’arte utilizza sistemi ben sofisticati .





                                     LA  MAFIA 

 


                                                  LA      N' DRANGHETA














                  LA   CAMORRA 









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